L'ANALISI
IL MEDICO RISPONDE: IL VIDEO
29 Giugno 2025 - 05:30
CASALMAGGIORE - Non solo sport estremi: cresce il numero di giovani atleti colpiti da una condizione dolorosa e invalidante che blocca il gesto atletico. Protagonista della rubrica ‘Il medico risponde’ è il professor Alessio Pedrazzini, direttore di Ortopedia dell’ospedale Oglio Po di Casalmaggiore.
Che cos’è la sindrome compartimentale cronica?
«È una condizione morbosa che si manifesta soprattutto in giovani atleti e che negli ultimi anni è diventata sempre più frequente. Si tratta di una sofferenza muscolare legata all’aumento della pressione all’interno di uno specifico compartimento anatomico, come per esempio l’avambraccio. È stata descritta per la prima volta da Wilson, medico della spedizione antartica di Scott, in riferimento alle gambe di alcuni partecipanti, sottoposti a marce forzate in ambienti estremi. Oggi però interessa con maggiore frequenza gli arti superiori e si riscontra in discipline come motociclismo, canottaggio, arrampicata e, più recentemente, anche nella scherma».
Come si manifesta?
«Lo sportivo inizia a percepire una maggiore consistenza del muscolo, dolore e formicolio, specialmente alle mani. I sintomi peggiorano progressivamente fino a rendere impossibile il gesto atletico: il motociclista non riesce più a frenare, lo scalatore deve abbandonare la parete. È un dolore che cresce, fino a comprometterne del tutto la funzionalità. Questo accade perché il compartimento anatomico coinvolto – come l’avambraccio, racchiuso tra le ossa (radio e ulna) e le fasce muscolari – non si espande, e l’accumulo di sangue o liquidi al suo interno provoca un aumento della pressione che soffoca il muscolo e i nervi. Il risultato? Dolore, perdita di forza e formicolii ».
Da cosa è causata?
«Non esiste ancora una causa certa. Di sicuro, l’ambiente freddo può favorirne l’insorgenza, così come fattori psicologici quali stress e ansia da prestazione. Spesso compare durante o dopo gare importanti. La difficoltà è che non sempre si riesce a diagnosticarla con precisione. Non esiste un valore standard di pressione da superare: ogni persona può avere una soglia diversa. Si utilizzano dei manometri per misurare la pressione nei muscoli, ma in molti casi la diagnosi è clinica, ovvero basata sull’esclusione di altre patologie e sull’osservazione dei sintomi».
Come si cura?
«Il trattamento inizia sempre con un approccio conservativo. Facciamo l’esempio del motociclista, tra i più colpiti: si valutano eventuali fattori aggravanti come una tuta troppo stretta che ostacola il ritorno venoso. Poi si procede con fisioterapia, massaggi drenanti, neurotaping, creme riscaldanti e terapie fisiche come il laser o la tecar. Se però la sindrome diventa invalidante e l’atleta è un professionista, si ricorre all’intervento chirurgico».
In cosa consiste l’intervento?
«Si tratta di un’operazione breve, di circa 15-20 minuti per arto, in anestesia generale. Il chirurgo incide le fasce muscolari per liberare il compartimento e ridurre la pressione. In molti casi si sente un vero e proprio crepitio al momento dell’apertura, segno che la pressione interna era davvero elevata. Il paziente viene dimesso in giornata e può tornare gradualmente all’attività sportiva. Ma già dopo una settimana, se necessario, l’atleta può partecipare a gare di alto livello».
Viene trattata anche all’Oglio Po?
«Sì, è uno dei centri italiani con la maggiore casistica per questa sindrome, in particolare nella sua forma più nota, la cosiddetta ‘arm pump’. Abbiamo trattato non solo motociclisti, ma anche campioni come la scalatrice Jenny Lavarda, il motociclista Nicolò Bulega e la campionessa olimpica di canottaggio Federica Cesarini. L’intervento lascia una cicatrice, ma le recidive sono rarissime e il recupero è rapido. È possibile intervenire su un solo arto o su entrambi, a seconda dei casi».
La rubrica è realizzata in collaborazione con Asst Cremona e può essere ascoltata sul sito internet del quotidiano La Provincia di Cremona e di Crema e anche sul suo canale YouTube.
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