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E così l’orrore diventa un servizio Premium

Il respiro del cecchino e la guerra parco giochi. Turisti del massacro? L’ombra dei ‘safari umani’ a Sarajevo torna trent’anni dopo. La Bosnia degli anni Novanta terreno di caccia: qualcuno comprava brividi estremi

18 Novembre 2025 - 05:30

E così l’orrore diventa un servizio Premium

Caccia grossa a Sarajevo. Tutto confezionato a puntino: trasferimento silenzioso, alloggio che odora di disinfettante di lusso, promessa d’avventura consegnata in una busta sigillata. Poi il confine, la collina brulla, la mimetica che gratta la pelle come carta vetrata. E il fucile stretto addosso, come un’appendice del braccio. L’aria sa di ferro e di foglie secche triturate sotto gli scarponi. Da lì, la città sembra un modellino difettoso: tetti scorticati, finestre annerite, strade come cicatrici. Sotto, la vita si muove a scatti. Il predatore respira piano dietro un sasso. L’indice accarezza il grilletto. Ogni battito del cuore come un colpo che non è ancora stato sparato. Serve pazienza. Il tipo di pazienza che fa dimenticare il freddo e, soprattutto, la noia. Poi compare la figura. Si muove piccola e rapida tra due muri sbrecciati. Perfetta. Il respiro del cacciatore accelera e l’occhio incolla la sagoma dentro il cerchio della lente. Il mondo intero diventa quel minuscolo ovale scuro che si sposta, si ferma, riprende a muoversi. L’indice scatta. Il colpo parte. Rinculo. Silenzio. La figura crolla al suolo. Nelle orecchie, nessun ruggito da predatore: solo il suono sordo e imbarazzante della verità. Il vento alza un lembo del cappottino della bambina. Senza un bottone. Potrebbe essere la sinossi di un racconto distopico. E nerissimo. Invece – secondo le cronache recenti — è agghiacciante realtà. Protagonisti non mercenari reclutati per uccidere, ma mercenari al contrario, pronti a pagare per conquistarsi un brivido assassino di dominio assoluto.

Come un pacchetto wellness per manager stressati: avventura garantita e riservatezza blindata. È la promessa di un’emozione proibita, il killer instinct ridotto a prestazione: paghi, miri, spari. E nel vuoto che segue l’esplosione del colpo, quando il bersaglio cade senza nome, si spalanca la voragine. Negli ultimi giorni, un esposto — un atto formale e coraggioso — ha riaperto un capitolo che pareva archiviato tra i faldoni delle leggende metropolitane. Si parla di safari umani, espressione che fa rabbrividire solo a pronunciarla. La Bosnia degli anni Novanta, Sarajevo assediata: tra i cecchini che popolavano i palazzi devastati sarebbe arrivato anche chi non combatteva per una divisa, ma per un’ossessione.

Nel 2022 un documentario aveva sfiorato il tema, restituendo le testimonianze di chi ricordava strani visitatori venuti ‘da fuori’, ospiti che pagavano per affacciarsi al davanzale della guerra. Eppure, tra un ricordo sfilacciato e un documento che appare dal nulla, il terreno trema. Non tanto per la portata delle accuse, quanto per la difficoltà di separare la verità dal rumore di fondo: spostamenti in zone di conflitto senza lasciare traccia, testimoni che compaiono e svaniscono, itinerari impossibili da confermare. È lo stesso meccanismo visto ai tempi della ‘blue whale’, quando un’ondata di panico costruì mostri più grandi dei fatti. Oggi come allora, serve maneggiare queste storie con cura chirurgica: non per smontarle, ma per non consegnarle già confezionate al mito. Ma è la denuncia dei giorni scorsi ad aver riacceso i fari: una mole di documenti, racconti, sospetti. E, inevitabile, il battage mediatico che rimbalza tra talk show e social, riproponendo l’immagine terrificante dell’uomo diventato preda.

L’immaginario cinematografico da sempre anticipa e metabolizza le zone d’ombra dell’essere umano. Vengono in mente il Chris Kyle di American Sniper, con il suo sguardo che misura distanza, vento e destino, oppure il volto acerbo e glaciale della bambina-cecchino di Full Metal Jacket, incarnazione di una ferocia che contraddice l’innocenza dell’età. Inquadrature hollywoodiane che ritornano per contrasto: lì erano personaggi immersi in una logica di guerra, qui potenziali turisti del massacro, consumatori di un’esperienza estrema. La realtà supera la fiction con una brutalità che neanche il cinema osa spesso sfiorare. Se è vero che la letteratura ha la capacità di affondare la lama senza distogliere lo sguardo, forse Palahniuk, con i suoi mondi corrosi dove gli impulsi più sordidi trovano giustificazione narrativa, avrebbe immaginato un club sotterraneo di uomini ricchi che misurano il proprio valore sparando a qualcuno su un altro continente.

Gonzo tourism, moralità liquida, desiderio di sentirsi vivi solo nel momento in cui si concede la morte a un altro. Ma il mostro non è mai così distante da noi: è il risultato di un’economia dell’emozione che vuole tutto più forte, più crudo, più autentico. Una pornografia della violenza che scambia la sofferenza altrui per combustibile dell’ego. Un filosofo della morale probabilmente partirebbe dalla banalità del male che Hannah Arendt individuò come movente di molti abissi umani. Non serve un demone: basta un uomo che smette di pensare, che sospende il giudizio perché spinto da un gruppo, da un contesto, da un desiderio travestito da libertà, in un cortocircuito tra volontà e responsabilità, tra piacere e disumanizzazione. Pagare per uccidere riduce la vita a oggetto, cancella la reciprocità, trasforma l’altro in sagoma. È l’etica del videogame portata nella realtà, senza la possibilità di spegnere la console.

Qualcuno parlerebbe di violazione estrema dell’imperativo categorico: l’uomo come mezzo e non come fine, degradato al rango di bersaglio usa e getta. Qualcun altro osserverebbe che non può esistere alcun bilanciamento positivo in una scelta che genera solo dolore e paura. Neppure la visione più cinica e relativista troverebbe giustificazioni: il piacere ricavato dall’esperienza non regge a confronto con l’orrore che produce. Che cosa c’è, allora, alla base di una simile mostruosità? La fascinazione per le armi, la volontà di sentirsi onnipotenti, l’attrazione per l’adrenalina pura, l’illusione che la guerra sia uno scenario in cui tutto è permesso. A questo si somma l’effetto anestetizzante della distanza: chi paga per vedere attraverso un mirino non percepisce il valore della vita che si trova di fronte.

Vede un corpo in movimento, un bersaglio. Un oggetto che muore. La vera mostruosità non sta solo nel gesto, ma nell’indifferenza che lo precede. Nel credere che la guerra sia un parco giochi proibito, una zona franca della moralità. Nel pensare che la sofferenza degli altri sia un biglietto premium verso l’estasi. È l’ultimo stadio di un narcisismo espanso, dove l’emozione personale vale più della dignità umana. Riscrivere oggi queste vicende — alla luce dell’esposto, del documentario del 2022, delle testimonianze che riemergono — significa rimettere al centro una domanda impossibile da eludere: fino a che punto può spingersi l’essere umano quando nessuno lo guarda o quando crede che nessuno lo giudicherà? La risposta non è consolante, ma è necessaria. Solo riconoscendo l’orrore si può sperare di impedirne il ritorno.
Perché, alla fine, non è la guerra a creare i mostri: li rivela. E li mette di fronte allo specchio che spesso rifiutiamo di guardare.

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