L'ANALISI
04 Novembre 2025 - 05:25
									Atene, 431 avanti Cristo. La Grecia è sconquassata da un conflitto che, secondo i ‘cronisti’ dell’epoca, è stato «superiore a qualsiasi altro precedente». In campo ci sono due ‘blocchi’, si direbbe con una mezza forzatura, in lotta per la supremazia: da una parte, una costellazione di città capitanate da Sparta; dall’altra, appunto, Atene e i suoi alleati. Che più che ‘alleati’, a dire il vero, sembrerebbero sudditi: soprattutto perché obbligati a versare regolarmente quote importanti nel tesoro comune (a cui gli ateniesi attingevano anche per gestire affari interni). In caso contrario – come è accaduto più volte – c’è la repressione militare. La vicenda è raccontata quasi in presa diretta dal greco Tucidide, che la guerra l’ha vissuta in prima persona e ne offre un’analisi. E oltre a presentare i fatti nudi e crudi, si prende anche il tempo e lo spazio per offrirne un racconto vivace, animato in particolar modo dai discorsi memorabili dei personaggi più importanti; che ovviamente Tucidide non ricorda a memoria, ma di cui ha conservato il ‘succo’. Li avrà sentiti perché era presente, o gli saranno stati riferiti da persone giudicate da lui affidabili. Uno di questi, in particolare, fa parte del decalogo dello studente di liceo classico di quasi duemila anni dopo: il discorso pronunciato dalla massima autorità ateniese, Pericle, al termine del primo anno di guerra, per ricordare chi ha perso la vita nel conflitto. Famosissimo. Ma per più di una ragione, forse, proprio in questo 2025 vale la pena di riprenderlo in mano.

Comincia così: «Questo paese, che i nostri antenati sempre abitarono, lo trasmisero libero ai discendenti che li seguirono fino ai nostri giorni, e fu merito del loro valore. Se però essi sono degni di lode, ancora di più lo sono i nostri padri, che, oltre a quello che avevano ereditato, conquistarono il dominio che possediamo e a prezzo di gravi sacrifici lo consegnarono a noi». Anziché passare in rassegna le gesta valorose di chi ha perso la vita nel primo anno del conflitto, Pericle preferisce concentrarsi su ciò che è stato costruito. E su ciò che significa essere un cittadino di Atene (e non di Sparta): avere il privilegio di vivere sotto un regime politico che, per lo meno da un punto di vista ideologico, fa della libertà la sua bandiera. Come sia organizzato e a quali principi si ispiri, lo spiega Pericle stesso: «Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio per loro». Entra poi nei dettagli: «Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta». Non democrazia (si sa: dal greco demos, ‘popolo’, e kratos, ‘potere’) perché il potere è nelle mani del popolo; ma perché il potere è esercitato con riguardo al popolo, per il popolo. Come si tenga in piedi questa forma di governo, Pericle lo spiega dando rilievo a due aspetti: il primo, l’uguaglianza davanti alla legge. «Di fronte alle leggi, però, tutti, nelle private controversie, godono di uguale trattamento». Il secondo, la meritocrazia: «Secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale». Ma la democrazia ateniese penetra anche nel quotidiano. Essere democratici, per Pericle, significa anche esserlo a casa propria: guardare ai concittadini senza giudizio, senza critica, senza invidia. Per lo meno per quanto attiene alla sfera privata: «Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica così in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno, noi non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con la nostra disapprovazione una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito». Non solo una forma di governo, quindi, ma anche uno stile di vita, un fatto privato in cui ciascuno può e deve riconoscersi. La macchina funziona solo se tenuta in buona salute, curata e lontana da ogni forma di corruzione. E Pericle lo scandisce a chiare lettere: «Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta». E piuttosto che prendere una decisione che fa del male al popolo, meglio non prenderla affatto. Non importa quanto tempo ci vuole, conta solo il risultato: «Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare».
La democrazia ateniese fu un grande esperimento. Fallito, per certi versi: anche perché la guerra la vinsero gli spartani. Più tardi fu proprio questa lentezza di iniziativa a impedire ad Atene di resistere ai Macedoni, che ne spazzarono via l’indipendenza politica. Ma, anche a costo di farsi ‘sgridare’ da qualche storico, la tentazione di tracciare un ponte nella storia è forte: ogni guerra, a prescindere dalla sua ‘temperatura’ (calda o fredda), porta chi è coinvolto a ripensare se stesso, a ridefinirsi per fissare le ragioni per cui vale la pena lottare, anche fuori dal campo di battaglia. Questa libertà, l’Occidente in senso lato rivendica di averla ereditata. In un contesto in cui altre forze, a livello internazionale, sembrano aver percorso strade alternative a quella democratica tradizionalmente intesa, le domande che restano aperte, sono due: se ci riconosciamo ancora nel ritratto tracciato dai greci; e se siamo ancora disposti a esserne orgogliosi. Come lo era Pericle, che non ne fa mistero: «In una parola, io dico che non solo la città nostra, nel suo complesso, è la scuola dell’Ellade, ma mi pare che in particolare ciascun Ateniese, cresciuto a questa scuola, possa rendere la sua persona adatta alle più svariate attività, con la maggior destrezza e con decoro, a se stesso bastante».
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