L'ANALISI
14 Ottobre 2025 - 05:15
La guerra è la negazione della pace e non la condizione ordinaria che consente la pace. Il postulato è fondamentale, perché indirizza le argomentazioni del libro sotto la buona stella della fiducia nei rapporti tra le persone e tra i popoli. Un pensiero che genera speranza è quanto mai urgente, in un tempo di incertezza che vomita ansia e rancore. Il diritto non intende in primo luogo regolamentare l’uso della forza, ma è lo spazio del riconoscimento reciproco e delle relazioni sociali. Pensare la pace significa, dunque, favorire uno sguardo rinnovato sull’altro, che solo la guerra nega e cerca di eliminare perché visto come nemico. Viene così superato il principio che ritiene di fare la guerra in nome della pace, che giustifica la corsa agli armamenti e la necessità di usare la violenza e le armi come inevitabile necessità. «La pace rappresenta una risorsa continuamente attivabile e riattivabile. Ma per farlo occorre sapere che la si ha a disposizione. Se la si pensa solo come qualcosa che dobbiamo raggiungere, finiremo per lasciarla nel luogo dell’utopia e ci sentiremo giustificati nei nostri (spesso voluti e interessati) fallimenti». Se la pace è il punto di partenza della vita sociale, allora l’impegno delle energie politiche, economiche e sociali è di mantenerla e non di ottenerla. Alla base vi è un’antropologia positiva, che crede nel legame tra le persone come qualcosa di costitutivo, che educa alla fiducia dell’incontro.
Al contrario, la ragione bellica si alimenta della cultura del sospetto e dello scontro. A partire da questo presupposto, l’autore si addentra nella filosofia del diritto, mostrando come nel Novecento la costruzione di una comunità internazionale sia stata considerata da molti pensatori come il primo passo a garanzia di una pace duratura. La sovranità dei singoli Stati deve promuovere l’interesse del proprio Paese senza trascurare gli interessi degli altri popoli. Il principio di fondo è quello dell’interrelazione tra gli Stati, che non possono pensarsi isole separate: «È proprio la sovranità, intesa come principio assoluto, ad aver causato le grandi tragedie della storia».
Anche l’insegnamento che proviene da Immanuel Kant, autore del celebre Per la pace perpetua, non va trascurato. Interessante è la ripresa dell’idea che solo un ordinamento giuridico che affida al popolo la decisione di fare o non fare la guerra può far sperare che le guerre verranno evitate. In ogni guerra, infatti, è il popolo e non i governanti a pagarne tutte le tragiche conseguenze.
La vicinanza geografica degli Stati è un invito a costruire relazioni stabili, regolate dal diritto. Appellarsi al diritto e alla sua mitezza significa accettare il limite, che «ha la funzione di creare spazio per l’altro, per gli altri: per gli altri cittadini, per gli altri poteri, per gli altri Stati. Ed è esattamente dentro lo spazio creato dal limite di ciascuno che cresce e prospera la fiducia».
La distinzione tra il politico morale, che si ispira alla prudenza, e il moralista politico, che ha di mira solo la propria convenienza, permette di capire le ragioni di approcci giuridici opposti. Vi è, infatti, chi non smette di armonizzare «essere e dover essere» e chi rivendica un diritto di conquista, come se il mondo fosse a disposizione esclusiva dei potenti. I «moralisti dispotizzanti» — così li chiama Kant — si mostrano incapaci di pensare al bene possibile, non riescono a immaginare forme di cooperazione tra Stati e si fanno promotori di una ossessiva logica escludente. La riflessione di Greco non è affatto ingenua. Ha il grande pregio di attingere dalla migliore tradizione giuridico-istituzionale e non disdegna riferimenti preziosi alla letteratura, nella consapevolezza che l’arte talvolta ha parole o immagini più efficaci e convincenti. Il pacifismo giuridico non si fonda sul principio che vuole eliminare la forza dalla storia dell’umanità, ma «sulla convinzione che la forza possa essere regolata, se non ingabbiata definitivamente». Nell’approccio odierno ai conflitti armati nel mondo vi è una radicale e preoccupante assenza del diritto internazionale che finisce per appiattire il discorso sui rapporti di forza e non sulla forza delle ragioni delle vittime e dei civili. Il discorso della pace va così di pari passo con lo stato di salute delle democrazie: è sotto i nostri occhi che il ritorno alla violenza delle armi sullo scenario mondiale è indissolubilmente legato alla regressione democratica di regimi politici autocratici e leaderistici.
Come ricorda Norberto Bobbio, «l’avvenire della pace è strettamente connesso con l’avvenire della democrazia»: solo così il diritto non scade nella volontà di chi ha la forza di imporsi sugli altri. Senza democrazia è in discussione il futuro delle istituzioni internazionali e si annuncia il suicidio della pace. In un tempo di cultura della guerra, che si struttura in argomentazioni, giustificazioni, scelte economiche e volontà politiche, il libro di Tommaso Greco è uno straordinario sussulto di umanità e di pensiero altamente propositivo. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo. La pace è il cuore della vita umana, genera fiducia nelle relazioni e produce futuro. La critica della ragione bellica è necessaria per non cadere nel tritacarne dei realisti della morte e della distruzione. La pace va presa sul serio. È il principio che rende possibile la vita e la promuove ogni istante. La pace merita tutto il meglio di cui siamo capaci per pensarla, promuoverla e strutturarla, anche quando all’orizzonte appaiono nuvole tempestose. Il sole della speranza può allontanare la bufera.
Per gentile concessione de ‘L’osservatore Romano’
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