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La vera democrazia mutilata dal cattivo ‘gusto sociale’

La politica, l’informazione, il linguaggio, la musica e persino l’arte ormai cercano solo il consenso sociale e il risultato economico: è il paradosso della commerciabilità. E allora, in nome dei contenuti, servirebbe un ‘colpo di Stato’: ai danni del cattivo gusto

Matteo Aschedamini

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07 Ottobre 2025 - 05:25

La vera democrazia mutilata dal cattivo ‘gusto sociale’

Uno dei tanti saggi di Giorgio Agamben si intitola «L’uomo senza contenuto»: è un saggio sull’arte o, meglio, sulla vacuità dell’arte. Sebbene abbia già qualche annetto, il tema del valore artistico merita di tenere banco ancora oggi, in un momento dove non è tanto l’arte ad essere in crisi, quanto il buongusto. Dalla politica alla musica, dalla poesia alla moda, è sempre più difficile trovare il contenuto. E qui nasce il paradosso, perché nell’era dei social l’arte dovrebbe essere democratica, il contenuto fruibile in qualsiasi momento, democraticamente valido.

Quando conquistò il primo vero e proprio boom di iscrizioni, Facebook fu salutato dal Washington Post come il futuro della politica, un vero manifesto dell’utopistica democrazia. Invece, è vero tutto il contrario: Facebook è diventato l’inferno dell’informazione. Così come dell’arte in generale. Qualcosa di simile lo vediamo anche nel linguaggio che viene adoperato in alcuni settori del giornalismo, come quello sportivo.

È disarmante ascoltare un telecronista, che dovrebbe essere un perito della lingua italiana, abusare di termini inglesi pur di non utilizzare i corrispettivi italiani. Questo suggerisce non solo incompetenza, ma un goffo tentativo di rientrare nel quadro della democrazia. Perché è la moda, intesa come fenomeno culturale, a tenere in ostaggio chi produce contenuti, dal giornalista al poeta.

I social sono una vetrina ben illuminata per assistere al disfacimento della qualità in nome della più accessibile quantità, anche se questa quantità è povera o anglicizzata. Ad esempio: quando le testate giornalistiche scrivono ‘call’ invece di ‘chiamata’, lo fanno perché pensano che ‘call’ significhi qualcosa d’altro o perché usare il termine italiano potrebbe risultare arcaico e superato a un bacino di utenza al passo con i tempi? In questo modo, il contenuto è celato, nascosto sotto una montagna inquietante di non-contenuto e la qualità o il tentativo di raggiungerla, abbandonati.

Pensate alla musica, quella che va forte oggi: la stragrande maggioranza dei cantanti è diventata in blocco una massa uniforme di performers e le canzoni sono scritte da altri. Non solo: seguono le regole del mercato; in particolare del trend, cioè della tendenza. E la tendenza, ahinoi, è quasi sempre democratica e quasi sempre di cattivo gusto. Questo perché per funzionare, oggi, l’arte deve essere consumabile. La roba ricercata non va, non fa tendenza. E il risultato è palese: abbiamo democraticamente scelto di potare il ramo puramente artistico in favore di quello commerciale.

In un saggio sul valore dell’arte contemporanea, Paul Virilio ed Enrico Baj commentano la procedura di selezione a cui vanno incontro i contenuti artistici. Non esiste, come un tempo, una classe ‘eletta’, proprietaria non solo del buongusto ma anche del potere di realizzarlo. Non ci sono né mecenatinobili su Instagram: il valore di un contenuto lo vota il popolo, secondo la preformazione. Vince quello che produce il risultato migliore, non quello che porta più significato, né quello più studiato. Vince, in poche parole, il contenuto che nel marasma generale riesce a ottenere la reazione migliore, e molto spesso, quello più accettabile.

Similmente accade in politica. Se i mezzi di comunicazione richiedono velocità e preformazione, il politico a caccia di elettori non perderà tempo a dispiegare le sue complesse idee, bensì si getterà furiosamente nel pronunciare frasi slogan o telegrammi, anche perché di discorrere per ore come accadeva un tempo non ne ha neppure la possibilità. E forse, almeno qualcuno, nemmeno le capacità. E del resto, il cittadino — dalla soglia di attenzione umilmente ridotta a una spanna di secondi — non lo ascolterebbe, il giornalista lavorerebbe per generare l’errore, o in generale, un qualsiasi elemento che rendesse l’intervista consumabile sui social.

Quindi, ecco il telegramma. Il politico X dice ‘no’ alla manovra Y. Semplice. Finito. Basta così. Perché questa semplice complicanza — potete constatarlo anche solo dalla frase di cui sopra — polarizza l’opinione. Ma il telegramma non è adatto all’espressione delle zone grigie. E quando le zone grigie scompaiono, il potere democratico viene mutilato e la zona franca tra il ‘’ e il ‘no’ scavalcata, insieme a tutti coloro che vi si collocherebbero.

A complicare ulteriormente una situazione già paradossale c’è poi l’incompetenza. Gli incompetenti spesso riescono con facilità a raggiungere posizioni di rilievo. Ma non è fortuna o malizia, tutt’altro; è il sistema dell’informazione che lavora in questa direzione. Eppure, chi veramente ragiona, critico d’arte, appassionato di musica, elettore informato che sia, in questo minestrone confuso e uniforme non sa più chi votare. Banalmente, se su dieci politici solo tre dimostrano di essere abbastanza preparati da meritare il voto, il potere democratico della partecipazione al governo dello Stato è semplicemente crollato.

Questa però è politica commerciale. Tornando alla musica, il discorso è simile. Sempre più facilmente possiamo incorrere in artisti di ottimo livello che confezionano dischi mediocri perché risultano più logici e conformi al sistema. Voi obietterete: ma se vende, che male c’è? C’è di male che non è arte in senso lato, non è contenuto. La vendita del prodotto non è un risultato che deve interessare a chi produce arte, non deve categoricamente essere il fine. Il denaro deve arrivare come conseguenza, non come obiettivo.

Eppure, la commercialità non funziona unicamente perché spinta da una serie di contingenze che ne facilitano il consumo, ma anche perché dall’altra parte c’è un bacino di consumatori disabituato al buongusto, in un certo senso: lo rimprovera. Il messaggio che viene veicolato è fortemente posto in secondo piano rispetto all’effetto che produce. Basti pensare all’importanza che nel mondo occidentale giocano le scienze della vendita e della comunicazione.

Un esercito di professori esperti di risultato e ben pochi capaci di produrre contenuto. Agamben lo notava già come nocciolo dell’atteggiamento borghese nei confronti dell’arte, innanzitutto funzionale. Trasportare questa contraddizione fino al suo estremo significa accettare che la democrazia non è un sistema ottimale, perché è in primis il democratico che si difende dietro gli ampi e invalicabili bastioni del gusto personale. E il gusto personale, quando diventa ‘gusto sociale’, è il primo atto di una tragedia. Perché la buona musica non può essere apprezzata da tutti; e nemmeno deve, come del resto la buona pittura o la buona scrittura.

Sarebbe ingiusto e illegittimo puntare il dito verso chi sceglie, ma è opportuno anche far notare che questa ‘scelta’ è suggerita, se non imposta. Ci muoviamo secondo percorsi predeterminati quando navighiamo sul web o ci affidiamo in generale ai sistemi di comunicazione che adottano gli algoritmi, e ignoriamo nostro malgrado la presenza di coni d’ombra tutt’intorno a noi. Questa ‘scelta’ è sporca, perché plasmata, accomodata.

Il gioco dei bisogni è terribile e potente e riduce come prima cosa la nostra forza di cercare al di là. Quando siamo prontamente soddisfatti da prodotti velenosi, non ci rendiamo conto della fiele che si accumula nel nostro stomaco finché non siamo stecchiti. Similmente accade ora, con montagne di arte senza contenuto che si muovono davanti a noi, impedendoci la vista del contenuto nascosto. Un invito all’arte: sia meno democratica. O, alla peggio, tenti un ‘colpo di stato’. Ai danni del cattivo gusto. E del commerciale.



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