L'ANALISI
30 Settembre 2025 - 05:30
La fine della modernità liquida e lo scardinamento della globalizzazione neoliberista ci consegnano a una grave crisi, che è prima di tutto spirituale. Immaginare di organizzare la realtà appoggiandosi esclusivamente su sistemi funzionali e sull’ampliamento delle possibilità di vita individuali ha portato alla crisi nichilista che stiamo attraversando.
Non è la prima volta che questo esito riemerge nel percorso della modernità. E forse imparare dalle lezioni della storia ci aiuterebbe a evitare il peggio.
Nel mondo della razionalizzazione digitale, l’io narcisista si consegna al (dis)ordine di un mondo sociale che è insieme altamente performativo e surrealista. Ma, a differenza di quanto scriveva Max Weber un secolo fa, la minaccia non ha il profilo di una gabbia d’acciaio, bensì quello di una progressiva e dolce assimilazione: proprio come nel mito di Narciso, l’io contemporaneo, specchiandosi nelle tecnologie che lui stesso ha costruito, ne rimane ammaliato. E finisce per esserne letalmente assorbito, assomigliando sempre di più a una macchina celibe. Una strada che, contrariamente a quanto sostenuto dal delirante sogno transumanista, non porta però alla nascita dell’oltre uomo ma, per usare una efficace espressione di Maria Zambrano, alla sua ‘disnascita’: «L’uomo che sogna di essere come se non fosse, si precipita nel suo desnascimiento».
Eppure, l’umano meccanizzato non è un destino inevitabile, né tantomeno desiderabile. Prima di tutto perché, dentro questa visione riduzionista si perdono per strada interi pezzi della realtà della vita, con conseguenze di immiserimento radicale. E in secondo luogo perché questa prospettiva è destinata, come evidente, a suscitare reazioni e opposizioni anche molto violente. Non tutti sono disposti ad accettare il destino che le élites del nostro tempo stanno immaginando (e imponendo). Non è un caso che le spinte fondamentaliste o neo religiose che emergono in ogni angolo del globo siano così radicali e tanto cariche di odio e di violenza.
Non disponendo degli strumenti e della capacità (o volontà) di mettere in discussione il principio ordinativo fondamentale della modernità (razionalizzazione strumentale e libertà individuale), esse si accaniscono con qualche nemico interno o esterno, che funziona da capo espiatorio per liberare la violenza latente che il nichilismo contemporaneo libera in dose massicce. Lo ripetiamo ancora una volta: la crisi è spirituale nel senso più pieno della parola. Nel senso, cioè, in cui Max Weber ne aveva parlato un secolo fa. E se questo è il problema, la via d’uscita non è quella del soluzionismo tecnico. I venti irrazionali che soffiano potentemente un po’ dappertutto sono la dura, ennesima conferma che il progetto illuminista di affidare alla sola ragione il compito di risolvere i problemi del mondo, per quanto necessario, non è sufficiente.
Contrariamente a quanto si è voluto far credere negli ultimi decenni, la dimensione spirituale non è pleonastica né eliminabile. E tantomeno è un affare esclusivamente individuale. Piuttosto, da sempre è elemento costitutivo dell’esperienza umana. E come tale va elaborato in rapporto alle questioni che interpellano la vita umana in ogni particolare epoca storica. Il rischio della strumentalizzazione, come evidente, è sempre in agguato. Ma non è certo la via fondamentalista la risposta alla crisi spirituale. Una via che, facendo appello a valori e norme del passato (peraltro usati strategicamente per fini politici o economici), punta a cancellare la vera, immensa eredità della modernità: l’idea di libertà personale, associata allo sforzo di una conoscenza che superi il mero soggettivismo.
C’è dunque un destino diverso da quello delle macchine celibi? Poiesis è la capacità creativa dell’umano che, partendo da ciò che esiste, con le sue tensioni, contraddizioni, criticità, compie un movimento creativo (trasduttivo) che non stravolge né violenta la realtà, ma la dilata, innervandola e integrandola. Ciò che contraddistingue l’azione poetica è la piena consapevolezza della struttura relazionale e spirituale della vita, che può essere trasformata ma non brutalizzata. ‘Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra’, come scriveva Hölderlin, perché sa di non poterla dominare. E sa che il limite è vincolo benefico per una libera creatività che non tracimi in pura volontà di potenza. Per contrastare la meccanizzazione del mondo, forse, è proprio questa via da intraprendere: lavorare per creare le condizioni di una diffusa capacità di azione poetica. Perché solo la poesia è «capace di generare metamorfosi, di indurre trasformazione, di far germogliare il nuovo in ogni essere» (Zambrano).
Nell’Etica Nicomachea Aristotele oppone l’azione (praxis) e la produzione, il ‘fare’ (poiesis); il fare e l’agire. Il fare ha il proprio fine fuori di sé, mentre l’agire bene ha il proprio fine in sé stesso. La poiesis non è quindi una forma di consolazione o un’evasione dalla realtà; tantomeno un luogo irenico e nobile contrapposto alle miserie del mondo. Ma una forma particolare di fare, di ingaggiarsi con la realtà. Il fare poetico riguarda il modo di stare nel mondo: un fare non estrattivo, che non cerca semplicemente di massimizzare il vantaggio per sé e il proprio ambiente di riferimento, incurante delle conseguenze (la produzione di scarti, ambientali e umani). Un fare che, piuttosto, sta dentro, partecipa al tutto di cui siamo parte, in modo contributivo, creativo e concreto. Come scriveva Christian Bobin: «Abitare poeticamente il mondo o abitare umanamente il mondo, in fondo, è la stessa cosa».
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