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Latella spiega la sua lettura de Il servitore di due padroni

Nicola Arrigoni

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fpavesi@cremonaonline.it

28 Gennaio 2014 - 16:54

Latella spiega la sua lettura de Il servitore di due padroni

Antonio Latella

CREMONA - Il teatro Ponchielli stasera (ore 20,30) è pieno bombato, Il servitore di due padroni di Goldoni è una certezza. La presenza degli studenti sarà forte, ma forse quelli che rimarranno più spiazzati saranno i professori. Il servitore di due padroni di Antonio Latella ha cancellato Goldoni, il suo Arlecchino è bianco e non ha nessun legame con quello strehleriano. Antonio Latella, impegnato a lavorare sul Peer Gynt di Ibsen nella lontana Siberia, spiega le motivazione di un’operazione teatrale che sta facendo discutere ma che nel bene come nel male è segno della stagione 2013/2014. Perché ha sentito l’esigenza di far riscrivere il Servitore di due padroni di Goldoni?

«Riscrivere per dare un segno autoriale è stata sempre una mia esigenza, in tutti i lavori che ho fatto, è una necessità che spesso viene dalla voglia di confrontarmi con l’autore. La riscrittura del Servitore è nata per cercare attraverso gesti e linguaggi contemporanei, di innescare quel meccanismo di incontro-scontro che avveniva nella commedia dell’arte, prima che Goldoni ne facesse scrittura scenica. Ovviamente se riscrivi ti esponi a grandi rischi, ma credo che esporsi e prendere posizione su un testo e un autore sia un dovere».

Cosa l’ha convinta della drammaturgia di Ken Ponzio? «La sua essenza: è come se avesse riportato la parola all’osso, togliendo tutti i ghirigori, gli orpelli che abbelliscono e nascondono il detto e il non detto. Quello che alcuni possono scambiare come superficiale io trovo che sia profondissimo, quasi una critica spietata alla nostra società e perché no anche al nostro teatro. Ken Ponzio non ha paura, non si nasconde, ha preso dei rischi perché se provi a rimettere in scena un testo così lontano da noi, a mio avviso lo devi fare fino in fondo».

Cosa l’ha spinta ad affrontare un testo che è in un certo qual modo il simbolo del teatro italiano? «La menzogna di quel testo, la menzogna del non detto, la menzogna della verità dietro le maschere, la menzogna della cartapesta che crea finte stanze che non saranno mai, la menzogna di un Arlecchino che nell’originale si chiama Truffaldino, la menzogna del dolore camuffato in risata, la menzogna dell’amore come mercificazione dei sentimenti e la menzogna di quello che all’estero vogliono continuare a vedere di noi cioè pizza, Arlecchino, Pulcinella e mandolino».

Non appena ha annunciato questa sua nuova produzione l’impressione è stata quella di una sfida aperta all’Arlecchino strehleriano... «Questa è stata la più grande sciocchezza che alcuni operatori hanno voluto leggere. La trilogia della villeggiatura l’ho fatta all’estero proprio perché anche quella avrebbe causato confronti con maestri del Novecento, ma noi non siamo Novecento, siamo il ponte tra i due secoli e abbiamo il dovere di prendere la tradizione per rilanciarci e cercare nuove possibilità, anche nell’errore che è necessario se si vuole veramente cercare e non affermare il proprio bisogno di fare regia. Questa è la lezione di un maestro come Strehler: continuare a studiare la regia, non fare regia e basta».

Come si spiega le reazioni alle prime repliche al suo Arlecchino contemporaneo a Venezia, Padova e Cesena, dove c’è chi ha abbandonato la sala? «Condivisibili, giuste. Il pubblico va ascoltato nel bene e nel male. Se il pubblico sente che viene preso in giro è giusto che protesti ma alcune volte il pubblico dorme e alla fine applaude; cos’è meglio? Io preferisco la protesta, anche questo è un dovere, ricreare una discussione è necessario. Sinceramente credo che il pubblico vada accompagnato a leggere nuovi linguaggi, purtroppo molti operatori preferiscono che la ricerca venga fatta solo nell’off o nei festival, questo causerà la morte di coloro che ancora sentono questa spinta, questa voglia di andare oltre il già detto; ovviamente questa non è la regola».

Chi è Arlecchino per Antonio Latella? «Arlecchino sono tutti coloro che si mettono al servizio di un solo padrone: il teatro, per fare questo devono saper servire sia il padre padrone che è la tradizione, sia il nuovo padroncino che è il contemporaneo. Preferirei che non si servisse il figlio del padre padrone che è il moderno. Se ogni tanto alzando la testa in teatro ci ricordassimo che quella striscia di velluto sopra i due grandi lembi si chiama Arlecchino, forse impareremo ad essere servi e finalmente a servire, senza toppe ‘pippe’».

Che senso ha un testo come quello del Servitore dei due padroni? «Una delle parole più presenti nel testo di Goldoni è ‘morto’, da quella ci può essere una resurrezione, o forse una rinascita. Distruggere per ritornare alle parole di Goldoni o forse per arrivare al prossimo spettacolo».

In cosa l’ha ritenuto valido? «Ogni colore dell’abito di Arlecchino è una storia, è un attore, è un idea di teatro, è una possibilità, un punto di vista. Il demone ha cucito i colori e ne ha fatto un vestito. Quanto non detto c’è in Goldoni che si potrebbe dire cambiando la prospettiva, senza annacquare i colori, ma tenendoli sempre come primari»

Si ha l’impressione che questo Servitore di due padroni rappresenti una sorta di spettacolo etico, politico sulla semantica del teatro. «Mi piacerebbe che il prossimo regista che metterà in scena Arlecchino, tra altri cinquant’anni, sia libero di farne quello che vuole. Mi piace pensare che questo mio lavoro sia un ponte, necessario a quelli che verranno. Io non faccio teatro politico, ma faccio politica perché faccio teatro».

E’ inscindibile la cesura fra la contemporaneità e la tradizione? «Io sono la mia tradizione ed è per questo che sono contemporaneo. Io ci sono perché ci sono stati un padre e un nonno, che vanno amati e alcune volte traditi. È come nella tragedia greca: si uccide sapendo chi si sta uccidendo e perché. Non sempre l’uomo contemporaneo ha saputo uccidere i padri, prima di farlo li devi conoscere».

Che consigli darebbe agli spettatori che vengono a vedere il suo Arlecchino? «Accettare di essere uno dei tanti ospiti di quell’immenso albergo che è il teatro, accettare anche solo schegge di storia e lasciare che questa non storia si costruisca da sè: vedo un dettaglio e da lì parte la mia idea di ciò che ho visto. È più facile di quello che si pensa solo che bisogna lavorare un po’, so anche che il teatro per molti è intrattenimento e anche questo credo sia giusto».

© RIPRODUZIONE RISERVATA DI TESTI E FOTO

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Commenti all'articolo

  • mariopietro.gioia

    29 Gennaio 2014 - 19:09

    Dopo aver visto lo spettacolo pongo una semplice considerazione: Visto come è stato stravolto il testo, titolare l'opera "Il servitore di due padroni" di Goldoni è solo un'operazione commerciale per richiamare il pubblico. Infatti penso che uno spettacolo di Ken Ponzio con la regia di Antonio Latella avrebbe lasciato il Ponchielli vuoto.

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