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Cremona e le mafie: zona grigia da esplorare

L’inchiesta Aemilia ha svelato una rete criminale radicata anche nel Cremonese, tra infiltrazioni e alleanze economiche che resistono al tempo. Il sistema locale mostra anticorpi, ma le complicità e i legami occulti rappresentano il vero pericolo: la vigilanza attiva è un dovere collettivo

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

25 Maggio 2025 - 05:25

Cremona e le mafie: zona grigia da esplorare

Istruttivo e drammatico il commento di un collaboratore di giustizia alla sentenza del processo Aemilia, 220 ’ndranghetisti imputati, quasi tutti condannati in primo e secondo grado: «Non illudetevi che sia finita qui. Non è finito proprio niente». Frasi pesanti come macigni sottolineate al termine dell’istruttivo docufilm ‘Aemilia 220. La mafia sulle rive del Po’, trasmesso da Rai Due venerdì sera in occasione della Giornata della legalità. Novanta minuti per raccontare la più importante indagine di sempre sulla ’ndrangheta al Nord. Il numero nel titolo corrisponde agli imputati, molti gravitavano nella Bassa Piacentina e nel Cremonese.

L’inchiesta, infatti, è partita qua, da casa nostra: in città, a Monticelli e a Castelvetro. Protagonisti, tra gli altri, il tenente colonnello dei carabinieri Andrea Leo, all’epoca al comando della compagnia di Fiorenzuola e oggi a Napoli, e il capitano Camillo Calì, attualmente operativo a Cremona. Un controllo del territorio conquistato con il sangue e le bombe dalla ’ndrina dei Grande Aracri - un nome da fare tremare le vene -, con oltre cento i morti nella guerra di mafia. Sangue anche qui, con il duplice delitto alle Colonie Padane nel settembre del 1992. Una volta silenziate le armi, è iniziata l’infiltrazione nella società civile e nelle istituzioni. Il sistema delle imprese cremonesi ha mostrato una buona capacità di resistenza alla penetrazione mafiosa, ma «non illudetevi che sia finita qui», appunto. Lo testimoniano le recenti interdittive antimafia firmate dal prefetto Antonio Giannelli, l’ultima indirizzata a un’impresa cremonese che aveva rapporti d’affari con decine di Comuni sciolti per mafia. Di questi provvedimenti avremo dettagli con la prossima relazione della Dia. Su tali atti e pure sulla zona grigia delle connivenze locali che facilitano le infiltrazioni.

C’è la autoassolutoria abitudine di considerare alcuni fenomeni come lontani da noi, ma spulciando la cronaca locale si apprende che, nei nostri territori, abbiamo dovuto registrare le azioni, spesso sanguinose, di trent’anni di criminalità organizzata. La provincia di Cremona appartiene alla terza fascia tra quelle lombarde. «Abbastanza infiltrata» è la poco tranquillizzante definizione.

Le mafie italiane, quarta industria del Paese per fatturato, generano affari illegali per un valore stimato di circa 40 miliardi di euro all’anno, pari a circa il 2 per cento del Pil nazionale. In Italia così come nel resto del mondo, tre quarti di questi proventi vengono reinvestiti nell’economia legale. Secondo un recente studio della Cgia di Mestre, in Italia sono almeno 150mila le imprese nell’orbita della criminalità organizzata.

Le forze dell’ordine sul nostro territorio sono ben attrezzate nella caccia agli affari mafiosi, ma l’opinione pubblica deve sapere che il problema esiste e il fenomeno, per quanto ben contrastato, è tutt’altro che estinto.

Secondo un rapporto semestrale della Direzione Investigativa di Brescia del 2020, anche a Cremona e nel Cremonese fra le attività tradizionali il traffico di droga resta il primario settore di interesse della ’ndrangheta, affiancato dall’edilizia e dal movimento terra. Il clan Grande Aracri è ancora dominante, ma colpito dalle inchieste cerca di rinnovarsi, e nuove alleanze si stagliano all’orizzonte. Proprio contro questi patti criminali è necessario intervenire.

Il cliché della mafia che spara è superato, appartiene a una storia per lo più passata. Le nuove cosche, quelle presenti nel Sud della Lombardia, diventano più autonome dalla casa madre e puntano al riciclaggio di denaro e all’inserimento nell’economia di mercato. Ecco perché i fattori che le spingono ad infiltrarsi sono mutati nel tempo.

La criminalità si insinua laddove siano aperti molti lavori pubblici, possibilmente in un territorio ricco. Complice anche un quadro, come quello cremonese, dove prevale la dimensione della piccola e media impresa, il che rende il territorio particolarmente vulnerabile, come spiegano inquirenti e sociologi. «Seguire i picciuli», i soldi, ammoniva Giovanni Falcone indicando la linea guida del contrasto alle mafie. E dalle nostre parti i picciuli non mancano.

«A Cremona non ci sono associazioni mafiose autoctone, ma ciò non significa che il problema non esista. Imponente è l’opera di colonizzazione dell’Italia», ha detto agli studenti cremonesi Antonio Laronga, procuratore aggiunto antimafia di Foggia sottolineando che la nostra provincia non può neppure sentirsi al sicuro dall’infiltrazione della cosiddetta quarta mafia, quella pugliese. Che si aggiunge a ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra siciliana.

La conferma è arrivata il giorno dopo questo intervento, con il sequestro nel cremasco di beni per 400mila euro a quello che è stato definito «un amico dei clan». Su 24.830 imprese della provincia, 412 sono potenzialmente prossime a contesti di criminalità organizzata (la stima è della Cgia di Mestre), dato poi ribadito in occasione del vertice con i prefetti lombardi di martedì scorso proprio a Cremona. Poche, non pochissime.

Per il radicamento delle mafie, lo ha ricordato martedì scorso il sociologo Rocco Sciarrone dell’università di Torino nell’incontro in Camera di commercio organizzato dalla prefettura, sembra essere decisiva la presenza di soggetti esterni – imprenditori, politici, professionisti – disponibili a intrecciare rapporti di scambio con i mafiosi. È questa la vera novità delle mafie in zone del Paese non tradizionali: la presenza di un’area grigia in cui pratiche di illegalità, spesso preesistenti, favoriscono relazioni di complicità e collusione nella sfera legale dell’economia, della politica e delle istituzioni. Ed è su questa area che la prefettura ha acceso con decisione i riflettori.

Il sistema Cremona ha adeguati anticorpi, ma la vigilanza deve essere sempre più un impegno, anzi per meglio dire un dovere, condiviso. La denuncia di comportamenti sospetti, il rispetto delle regole e la vigilanza attiva sono strumenti indispensabili per contrastare questi fenomeni. L’informazione e la formazione giocano un ruolo cruciale: solo attraverso la conoscenza dei meccanismi di corruzione e delle modalità con cui le mafie operano si può sviluppare una resistenza concreta e diffusa. Meglio una segnalazione di troppo che una di meno. Perché proprio non dobbiamo illuderci che sia finita qui.

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