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«Dal teatro più umile al più elevato si deve scrivere la parola Arte nelle sale e nei camerini, perché altrimenti dovremmo sostituirla con la parola Commercio». Sono parole di Federico Garcia Lorca e oggi queste parole risuonano quanto mai attuali. In questo invito c’è l’urgenza di fare i conti col teatro, mentre lo spettacolo dal vivo è bloccato, mentre ci si chiede come e se il mezzo informatico possa fare da sostegno al teatro che non c’è. È teatro lo spettacolo andato in scena in tv per la non prima del Teatro alla Scala? Oppure è il tentativo commerciale (?) di non lasciare un vuoto? O ancora sarebbe stato meglio il vuoto a quanto si è visto? La piattaforma Netflix del ministro Dario Franceschini può essere un’alternativa allo spettacolo dal vivo? O è necessariamente altro, perché il linguaggio e il mezzo sono altri? Gli interrogativi sono tanti e non riguardano ovviamente solo il teatro, ma di questo ci si occupa in Teatralia e a questo si guarda, come stimolo condiviso alla riflessione. Il teatro è la finestra da cui osservare il mondo, questo lo è per gli artisti, per i tecnici, ma anche per chi quotidianamente racconta, interroga, cerca di documentare il respiro della scena. Questa è la funzione della critica: osservare, leggere e tentare di interpretare ciò che accade, sforzarsi di darne una chiave di lettura.
E allora che accade se il palcoscenico diventa lo schermo del computer o del tablet? È teatro o una resistenza, è urgenza o paura dell’oblio? Paura che il pubblico si scordi del teatro? È il timore della non necessità della scena che ritorna come tormentone laddove ci si sente messi in un angolo? Per questo forse l’invito di Federico Garcia Lorca mette nero su bianco che l’arte deve avere il sopravvento sul commercio, e forse che la valutazione produttiva del fare per fare che muove il sistema teatro (e non solo quello) è stata messa al muro dallo stop pandemico. Forse è giunto il tempo per ripensare un modo altro di fare teatro, di fare comunità, di fare mondo. Per questo forse c’è bisogno con forza di scrivere a chiare lettere la parola Arte, di pretendere che questa col suo farsi e il suo fare guidi un modo nuovo – eppure antico - di intendere il teatro, metta al primo posto l’atto del generare creativo. «Un popolo che non aiuta e non potenzia il suo teatro è, se non morto, moribondo: il teatro, comico o drammatico che sia, che non sa cogliere l’inquietudine sociale, la pulsazione della storia, il dramma della sua gente o il genuino colore del suo paesaggio e del suo spirito, non ha diritto a chiamarsi teatro, piuttosto sala di gioco o luogo in cui si fa quella terribile cosa che si chiama ‘ammazzare il tempo’».
Oggi non è tempo di ammazzare il tempo – per dirla ancora con Garcìa Lorca – è, invece, il tempo forse di uno scarto, di un passo in avanti, della consapevolezza che il teatro non è svago, non è intrattenimento, è di più: è lo spazio democratico della partecipazione, è lo specchio che riflette chi siamo e di chi vorremmo essere, è il luogo della visione e della pre-visione, è spazio che induce domande, pone problemi, non dà soluzioni. Il teatro può «avere luogo in seno alla filosofia stessa, intesa non come sistema o tentativo di determinare l’essere, ma come azione drammatica, come esperienza di uno scontro di idee», scrive Simon Critchley in A lezione dagli antichi.
Oggi a teatri chiusi, oggi a spettacolo dal vivo ridotto a dirette streaming o a dibattiti se il teatro come luogo di interazione possa stare in rete o sia altra cosa, oggi in questo desiderio di non soccombere (economicamente prima che artisticamente) alla pandemia, il teatro mostra la sua debolezza ma anche la sua resistenza, la voglia di essere. Ma essere come? È questo il grande interrogativo. La pandemia ha messo in evidenza le fragilità di un sistema produttivo, ha messo in evidenza come la produzione in sé non possa o non dovrebbe esaurire lo scopo del teatro. C’è l’occasione di ripensare il sistema, di rileggere con forza la potenza socializzante del teatro, la sua capacità di convocare uomini e donne alla partecipazione attiva della poesia e questo sembra poter accadere solo dal vivo, in uno spazio e un tempo che siano veramente esclusivi e unici, non differiti né differibili. E allora ben vengano – per sopravvivere e non per altro – le videodirette, lo streaming, ma nella consapevolezza che sono dei palliativi al momento in cui il teatro sarà ancora luogo del qui ed ora, dell’unicità della performance.
Ma al teatro non s’addice la sopravvivenza, il teatro nel suo intimo è fame di vita, è attesa che accada qualcosa, è notte silenziosa
«Perdute nel calendario.
Ci sono state nella mia vita molte
Di queste notti sante.
Ma ne ho serbata
Una.
Inverno.
Neve fin dove arriva lo sguardo.
Un cielo nero, scintillante di stelle.
Sotto quel cielo
Eravamo in piedi io e mia sorella,
tenendoci per mano,
la testa verso l’alto,
cercavamo quella stella
di Betlemme
avevamo pochi anni.
(…)
È stata una notte come quella che
Cominciò il mio teatro,
la Povertà
la felicità e i PIANTI,
e l’amore…
Lentamente si compiva il
Miracolo,
l’arte.
I bambini aspettano sempre.
Per tutta la vita ho aspettato
Qualcosa che, credevo,
sarebbe avvenuta.
Tadeusz Kantor
Dalla notte silenziosa di Kantor il teatro abbia la forza e il coraggio di ricominciare, consapevole d’essere spazio di memoria e presenza, di ricordi e di vita, di morte ed eterno, il teatro è da oltre due millenni il racconto della terra in cui tramonta il sole… dei cieli infuocati, delle anime ribollenti, dei corpi che danzano, del respiro di un umanesimo che è incontro, scontro, vertigine del pensiero, nel teatro vive la consapevolezza che «dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva» per chiudere con Friedrich Hölderlin.
Nicola Arrigoni
10 Dicembre 2020
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