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La storia di Francesco Baracca raccontata daLuca e Alessandro Goldoni

Bello e temerario il primo eroe dei cieli

Gigi Romani

Email:

lromani@laprovinciadicremona.it

03 Giugno 2015 - 17:29

Bello e temerario il primo eroe dei cieli

Luca e Alessandro Goldoni
‘Francesco Baracca. L’eroe dimenticato della Grande Guerra’
Bur
176 pagine, € 13,50

Fra le figure che — complici le iniziative per il centenario della Grande Guerra — la memoria collettiva va riscoprendo, c’è quella di Francesco Baracca, stella indiscussa dell’allora nascente aviazione italiana. In ‘Francesco Baracca. L’eroe dimenticato della Grande Guerra’, i giornalisti Luca e Alessandro Goldoni, padre e figlio, prendono spunto dai numerosi studi sul personaggio e da una quantità di documenti contemporanei e lettere private. Classe 1888, originario di Lugo di Romagna, Baracca fu un asso del volo. Il titolo si riceveva dopo aver abbattuto cinque aerei nemici: lui ne abbattè 34, prima di morire, 30enne, durante una missione. Di famiglia nobile, alto e fiero, ancora affascinante secondo i canoni estetici di oggi, come testimoniano le foto che amava farsi scattare, il pilota amava la musica lirica e le belle donne (e le donne impazzivano per lui). Lontani dall’orrore dei campi di battaglia e dal logorio della vita in trincea, i primi aviatori conducevano un’esistenza privilegiata. Idolatrati dalle folle, contesi ai ricevimenti, rischiavano però la vita ogni giorno, su quei trabiccoli di metallo e tela difficili da guidare, con le ginocchia a reggere la cloche mentre il braccio si allungava per caricare la mitragliatrice. Se poi si veniva colpiti, oppure se il biplano aveva un guasto, non ci si poteva buttare giù: era proibito l’uso del paracadute, pensando che avrebbe fiaccato lo spirito aggressivo dei piloti. Baracca proveniva dai ranghi della cavalleria, e della cavalleria serbava l’etica ottocentesca del duello: al termine di ogni combattimento, si accertava che l’avversario fosse ancora vivo e, se lo era, andava a stringergli la mano. Dell’antica passione per l’arte equestre però, volle conservare anche un simbolo, un cavallo nero rampante che fece dipingere sulla carlinga del suo aereo. Quando, cinque anni dopo la morte del figlio, la contessa Paolina de Biancoli concesse a un giovane pilota di auto da corsa l’autorizzazione a utilizzare quell’emblema sulla sua vettura (o forse fu lui a chiederlo, sull’episodio esiste qualche incertezza), non poteva sapere che sarebbe diventato il brand più famoso d’Italia e uno dei primi al mondo. Il giovane pilota si chiamava Enzo Ferrari.

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