L'ANALISI
29 Settembre 2025 - 13:31
Cresce davanti ai nostri occhi, da Lino bambino a Michele Capraro ispettore, attraversando caserme, stazioni, estati siciliane e inverni del Nord, finché il ritorno nell’isola diventa prova di maturità e non semplice nostalgia. “Il gioco del passato” di Alessandro Salvatore Ferrara , pubblicato nella collana Gli Speciali del Gruppo Albatros Il Filo , ripercorre l’apprendistato umano e investigativo del protagonista di questa saga con un’andatura che alterna musica e dialetto, amicizie e amori, naja e casi da risolvere, fino a dare al lettore la mappa di una coscienza che si costruisce per indizi. Il secondo volume della trilogia, prequel rispetto al primo, mette in scena un protagonista atipico che affina l’intuito attraverso la disciplina, impara la pazienza delle attese, riconosce nei luoghi le impronte di chi li abita. Il titolo promette un gioco e chiama in causa il tempo come un compagno esigente. La struttura compositiva procede per tre campi magnetici che ordinano lo spazio e la crescita di Capraro. La prima stazione è Palermo , con l’infanzia che impara il vocabolario della città in equilibrio tra luce e ombra. Il ragazzo che sarà l’ispettore osserva i margini, impara il peso delle parole, misura i silenzi. L’educazione sentimentale passa dall’odore della caserma al rito familiare, dalle ricorrenze all’immaginario popolare che rimescola santi, patroni, soprannomi. Dentro questa Palermo, la lingua non è semplice accessorio di colore. Il dialetto siciliano attraversa scene e dialoghi con una funzione conoscitiva. Serve a posizionare i rapporti di forza, a misurare la distanza tra i ruoli, a dare carne e ritmo a una situazione. Nelle pagine dell’“Ufficio” di frontiera il giovane Michele difende la propria cadenza davanti a un superiore del Nord con una lezione di genealogia linguistica: la linea che porta alla lirica toscana passa per la Scuola siciliana, e quell’orgoglio di appartenenza dialoga con la necessità di stare alle regole del corpo di polizia. Non è folklore, è metrica del carattere. Sondrio , seconda stazione, funziona come laboratorio del metodo. Qui la narrazione adotta una cadenza più operativa. Si impara il lavoro di frontiera, si catalogano errori, attese, progressi minimi che diventano competenza. Il lessico si fa più asciutto nelle sequenze d’indagine e torna vibrante nelle pagine affettive, perché l’“amour” delle vacanze siciliane lambisce il perimetro del dovere e lo rimodella. La terza stazione, Falconieri, compie il giro del ritorno . Non è una cartolina identitaria, è un teatro di responsabilità. L’ispettore Capraro rientra nel 2014 e viene accolto da una squadra che gli riconosce statura e che al contempo gli oppone resistenze. La gelosia gerarchica e l’energia operativa alimentano il motore narrativo che porterà alle scene di sopralluogo, agli interrogatori e, infine, al riposo del guerriero. Falconieri conferma che il ritorno in Sicilia non è regressione al mito, ma coincide con un avanzamento della coscienza professionale. Si rientra per far lavorare l’esperienza maturata altrove su un suolo che reclama competenza e pietas. Le figure femminili ricoprono ruoli di grande rilievo per l’andamento della narrazione. Manuela disegna una costanza affettiva e rende visibile la linea del desiderio che non confligge con la vocazione professionale. Laura attraversa le pagine come ferita e come svolta, perché la crescita del protagonista passa anche dal riconoscimento del limite. Tatiana Lo Grasso è energia e rigore, è iniziativa e capacità di tenere il campo in un ambiente a forte intensità maschile. La loro presenza spinge il noir a diventare romanzo d’educazione , in cui la competenza investigativa convive con la geografia degli affetti senza creare fratture ideologiche. I colleghi del Nord e la squadra siciliana costituiscono a loro volta una tavolozza di timbri che serve al protagonista per completare la propria cassetta degli attrezzi. Da ciascuno passa un frammento di metodo: il richiamo alla regola, l’interpretazione elastica dei protocolli, la sensibilità nel trattare testimoni e vittime, l’ostinazione nel dettaglio. Lo stile di Ferrara privilegia una prosa di avanzamento che unisce linearità espositiva e tensione etica . La frase lavora su un ritmo modulato, alterna periodi brevi nelle sequenze d’azione a periodi più distesi nelle zone riflessive, dosa la punteggiatura per imprimere accelerazioni e rallentamenti funzionali alla percezione del dettaglio. Il lessico resta preciso e concreto , accoglie termini di procedura e linguaggi d’uso senza compiacimenti tecnicistici, costruisce verosimiglianza attraverso la misura. La focalizzazione interna guida lo sguardo verso ciò che conta e orienta il lettore dentro un montaggio episodico che procede per nodi, ellissi, riprese, con una gestione del tempo narrativo che mantiene sempre chiara la direzione del percorso. Il dialogo incide come strumento probatorio, restituisce la densità delle relazioni e definisce i rapporti di forza con naturalezza. Il dialetto entra come vettore cognitivo che affina le sfumature, la musica come metrica sommersa che dà cadenza alle scene. La prosa conserva una vibrazione lirica controllata , evita enfasi e derive ornamentali, ricerca un equilibrio tra cronaca e narrazione che rende la pagina affidabile e insieme porosa alle risonanze emotive. In questa scelta di stile si riconosce una regia discreta: lo sguardo non cerca l’effetto, cerca la precisione morale, e dalla precisione scaturisce l’energia narrativa. “Il gioco del passato” costruisce un’idea di romanzo civile che non indulge al pamphlet , perché intreccia alla trama investigativa il racconto di una Sicilia senza cartoline, tenendo insieme splendore e fatica, e consegna un protagonista che non abita la comfort zone dell’infallibilità. La trilogia annunciata trova qui la sua cerniera: prima il caso che apre al personaggio, poi il personaggio che prepara il caso più grande, quello che chiama per nome il male di un territorio. Dentro la tradizione del poliziesco italiano, Ferrara colloca un io narrativo che si sporca le mani con la storia, con l’educazione sentimentale, con il paesaggio sociale. La Sicilia che ne esce non chiede sconti e il gioco annunciato dal titolo consiste nella disciplina con cui si riascoltano le proprie origini per capire il presente. In questa verità condivisa prende posto Michele Capraro, investigatore atipico, che impara a leggere gli altri perché ha imparato a leggere sé stesso. Questo è il motivo per cui vale la pena entrare nel suo passato: non per restarci, per uscirne con una diversa idea di futuro . Collocato tra memoria e inchiesta, “Il gioco del passato” trasforma la biografia in un atlante operativo. Al lettore resta una traccia netta: la giustizia non vive di slogan, vive di dettagli che qualcuno ha avuto la pazienza di notare. Ferrara affida questa consapevolezza a una prosa di transito, capace di condurre da una stazione all’altra senza smarrire i compagni di viaggio. Si chiude l’ultima pagina con l’idea che la terza tappa arriverà e chiederà ancora più coraggio. L’attesa non pesa, somiglia a quelle sere in cui la città tace e il lettore, come un agente in appostamento, tiene d’occhio una finestra. A volte l’intuizione arriva così: un’ombra che si sposta dietro una tenda, il rumore minimo di una chiave nella toppa, la conferma che la storia prosegue. E che vale la pena esserci.
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