L'ANALISI
29 Settembre 2025 - 10:31
Il giorno trova il suo centro quando la luce si inclina appena e il vetro risponde con un riflesso che dura il tempo di un respiro. Lì, tra una finestra che registra il passaggio delle stagioni e un orizzonte marino che chiama all’inventario, prende forma una grammatica di gesti semplici : il passo in corridoio, il cielo che cambia direzione, i boschi in inverno che lasciano passare più chiarezza del previsto. In questo territorio minimo si muove la nuova silloge di Cesare Gallo per Europa Edizioni , “La pienezza delle cose” . L’opera affida al lettore una disciplina dello sguardo e un’educazione della distanza, quasi una piccola scienza del quotidiano. L’autore sceglie la via sobria della rilevazione e del ritmo interno, convoca un lessico di elementi naturali e oggetti domestici, mette alla prova la tenuta del presente con la pazienza di chi sa aspettare l’ora giusta dei crepuscoli. Il titolo promette densità, la mantiene con una misura che evita gli orpelli, lascia parlare le superfici e le pieghe. Il percorso cerca un metodo: registrare, ordinare, infine accordare. “La pienezza delle cose” prosegue il lavoro di “La notte indenne. Recitativo” e raccoglie testi composti tra il 2022 e il 2024. Il libro ha una struttura netta e calibrata, duecentocinquantotto testi disposti in progressione numerica e rigorosamente privi di titolo . L’assenza del titolo, insieme alla quasi totale elisione della punteggiatura , installa il lettore in un regime di responsabilità ritmica, perché ogni verso reclama una respirazione autonoma e ogni pausa va costruita in proprio, come in una partitura aperta. Si possono legare numerazione e aniconicità dei titoli a un’“immediatezza” che impedisce la cornice interpretativa e lascia affiorare un hic et nunc di situazioni, oggetti, moti dell’anima, mentre la mancata interpunzione incanala il discorso in un “flusso ininterrotto e naturale” che richiede un lettore attivo, competente nel dare ritmo e punteggiatura interiore alle immagini. All’interno di questo dispositivo formale scorrono i temi forti della raccolta. Il tempo domina come entità che si osserva a distanza per misurarne gli scarti, come nel trittico 249–251 che registra la microfisica dei secondi intercalari e la meccanica del presente, oppure come nel 257 che dà il titolo al libro e dove lo scarto temporale precipita in un’urgenza di esperienza: “Col tempo che si è fatto / precipitato non posso / più sottrarmi alla / pienezza delle cose”, con l’immagine dei boschi d’inverno che lasciano “passa(re) molta luce” a suggerire un’estetica della trasparenza fredda, quasi un’etica dello sguardo che non smette di fare i conti con il “filo teso al fondo della strada”, cioè l’orizzonte del limite. A questa regia temporale si affianca un’idea della vita come distanza regolata : “Per ridurla a zero / la distanza / del vivere mi / devo allontanare”, recita la 180, che trasforma il poeta in “spettatore disinteressato” solo per meglio misurare l’oggetto vivo che sfugge. L’autore definisce una postura: l’osservazione come forma di massima attenzione , la lontananza come condizione di messa a fuoco. Il tema dell’ultimo istante e della morte non viene drammatizzato, viene trattato con un’ironia sobria che disattiva la retorica del tragico e riconsegna al presente il suo valore di esercizio di sguardo: “Quando sarò morto / avrò un sacco di tempo / per essere morto”, e la coda del testo invita a un gesto semplice e decisivo, “almeno io guardo / il mare fintanto / che rimango vivo”, che congeda l’ossessione necrofora e riporta l’attenzione sull’atto percettivo elementare. La nostalgia entra per via obliqua, come eco di assenze sfiorate dall’immagine, come in 251, dove la sparizione dell’ombra produce un gioco di finzione e di timore, un avanzare “a ogni passo” temendo di consumare il poco che resta. È una nostalgia delle forme, non delle storie , una fenomenologia del venir meno che si traduce in immagine concreta. L’ipotesi e la congettura operano come figure costanti: il libro intero procede per enunciati ipotetici, quasi esperimenti mentali ancorati a immagini elementari, con una tensione cognitiva che affiora in segnali tecnici e scientifici e nelle microstorie di luce e ombra che fanno della percezione un laboratorio. Gli elementi naturali sono il vero lessico di base: mare, sole, vento, boschi, luna. Sono loro ai vertici di una “piramide poetica” che orienta lo sguardo, con il poeta testimone dei moti del cielo e delle stagioni, alla ricerca di un “Nord poetico” che illumina il buio. In questa geografia, la contrapposizione luce/buio non funziona come dualismo moralistico, risulta un alternarsi di regimi percettivi, e il crepuscolo diventa la zona franca in cui la luce si misura col limite e produce rivelazioni minute. Sul piano dello stile, la pagina costruisce un continuum musicale che chiede al lettore un compito attivo, con anafore e sinestesie a tessere una tessitura ipnotica. Un autoritratto implicito appare nel 255, dove l’io chiede: “scrivimi / d’amore ma senza / punteggiatura”, promettendo di mettere lui la pausa “alla / fine del giorno”, quasi a ribadire che la punteggiatura coincide con la vita vissuta, non con la grammatica. In filigrana si legge la scelta di un dettato che scorre e si affida all’orecchio. Nel libro affiorano nomi e immagini che tracciano una costellazione di maestri : Neruda con il respiro memoriale di Isla Negra, Hesse e il suo Gioco delle perle di vetro, Pina Bausch e la scena abitata dai corpi, Bach e la disciplina delle Variazioni Goldberg , il sole raccontato con rigore dalla Superficie critica di Alfvén , Piero della Francesca e la misura della luce, i netsuke giapponesi come scuola del dettaglio. Questi richiami entrano in pagina mescolandosi al passo quotidiano dei versi e precisano la direzione. L’autore lavora per innesti, accorda la visione a una memoria di letture e visioni, lascia che i modelli agiscano come strumenti. Il risultato è una lingua che riconosce le proprie genealogie e le mette al servizio dell’attenzione, con una cultura che illumina le cose e ne chiede la forma, senza vanità. La società spettacolare rimane sullo sfondo: Gallo preferisce le costellazioni domestiche ai neon massivi, e così l’anti-epica dei giorni trova una sua misura. Lo sguardo sulle stagioni e sui crepuscoli dà al libro la sua metrica . Novembre con il suo sole obliquo, l’inverno con la luce che attraversa i boschi, l’estate piena che organizza gesti in costellazioni, l’alba che verifica le visioni della notte: il calendario è una partitura di luce, e in questa partitura ogni componimento agisce come un esercizio di fenomenologia applicata. Il crepuscolo, soprattutto, appare lo spazio privilegiato della rivelazione mite, dove la luce non abbaglia e le forme escono dal cono d’ombra quel tanto che basta per essere nominate. L’intero libro si lascia leggere come una “pacata osservazione”, che non esclude tuttavia l’energia affettiva: l’ amore per i propri cari entra con dediche discrete, l’amore erotico corre in filigrana, l’amore per il mondo si traduce in una scrittura che non cede all’enfasi e non abdica al lirismo. L’equilibrio ricercato è una dinamica di aggiustamenti. E quando nell’ultimo testo il poeta immagina “i miei versi / sparpagliati a terra… dovrò mettere mano / a un catalogo”, e dichiara la sua “versione / parallela del mondo”, il lettore capisce che questo libro non offre una chiusura, propone un metodo di sopravvivenza dello sguardo : catalogare non per archiviare, ma per non perdere il filo tra le cose e la luce che le attraversa . La persuasione nasce da qui, dall’idea che la poesia serva a regolare la distanza giusta, a dire il mondo con la misura di chi ha visto “la quintessenza della / vita negli occhi di una / volpe” e continua a guardare il mare finché rimane vivo.
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