L'ANALISI
23 Dicembre 2025 - 05:20
Il XXI secolo si era aperto con l’attentato alle Torri Gemelle. Mentre gli scienziati annunciavano una nuova epoca della storia della Terra e dell’uomo, battezzandola Antropocene: un’epoca in cui l’umanità è diventata una grande forza della natura, il cui impatto è decisivo per il futuro della Terra e della stessa umanità.
Mai come oggi abbiamo avuto a disposizione una potenza così grande. Ma abbiamo tutti toccato con mano che in questa potenza si nasconde una nuova fragilità. Ed è proprio questa fragilità che ci accomuna, a causa della nostra stretta interdipendenza. Nell’esperienza di una comune vulnerabilità, la pandemia aveva suscitato una reazione di solidarietà. Rapidamente questo sussulto si è esaurito. E questo primo quarto di secolo si compie con il ritorno della logica della guerra per dirimere i rapporti fra le nazioni. La forza e la (pre)potenza sono tornate ad essere gli unici criteri regolatori dell’ordine economico e geopolitico.
La pace appare come un ideale velleitario, a meno di intenderla quale esito appunto della potenza, della forza e della guerra. Si è consumata l’illusione che il secolo scorso, volgendo al suo termine, consegnava al nuovo secolo: l’avvento di un mondo ‘finalmente’ pacificato dalla globalizzazione dei mercati, dalla convergenza di interessi per lo sviluppo economico e tecnologico, dalla sconfitta dei totalitarismi, dal trionfo indiscutibile del capitalismo e della democrazia liberale...
L’illusione ha mascherato il moltiplicarsi di crisi, di conflitti, di troppo gravi e intollerabili diseguaglianze. E, per converso, tutto ciò ha provocato il rifugio regressivo e ‘reazionario’ nel tradizionalismo, nel fondamentalismo, nel nazionalismo, nell’identitarismo antistorico e antiscientifico che si vuole ormai rendere ispiratore persino dei nuovi programmi scolastici. Di fatto, siamo entrati nel nuovo secolo indietreggiando, piuttosto che cercare di leggerne gli indizi, le condizioni radicalmente mutate e il carattere inedito, che potrebbero invece svelarci la via di una svolta inattesa e di un futuro diverso possibile. E la via sarebbe quella di riconoscerci ‘sulla stessa barca’, per usare la profetica espressione di Papa Francesco in quella notte buia di piena pandemia. È quella di riconoscere la pace come l’unica alternativa all’autodistruzione dell’umanità.
Perché anche la guerra non è più quella di una volta... In questo primo quarto del secolo le armi nucleari sono proliferate nel pianeta. Il problema della pace, del disarmo e dell’unità del mondo non è più un problema fra gli altri: è diventato il solo nuovo problema del mondo, che, secondo le insuperate parole di Giorgio La Pira, definisce l’età nuova (senza alternativa) della storia. Perché l’arma nucleare ci pone in modo radicale di fronte al dilemma fra l’essere e il non essere dell’uomo: questa è la novità dell’era atomica. Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera, come ammonivano già Albert Einstein e Bertrand Russell settant’anni fa: «Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per sostenere la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci sarà più tempo per mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo porci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per tutte le parti?». È questa la domanda che l’età nucleare pone all’umanità intera: «Metteremo fine alla specie umana o l’umanità rinuncerà alla guerra?».
Altro che si vis pacem para bellum, come ormai in modo tragicamente facilone e sconsiderato si sente ovunque recitare, quasi si trattasse di un gioco di società per le prossime feste di Natale! La storia umana è in tensione sul crinale che separa le due frontiere apocalittiche, quella dell’autodistruzione e quella del ‘comando di Isaia’ («forgeranno le loro spade in vomere, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra»), come lo chiamò John F. Kennedy, che aveva inaugurato la sua presidenza additando proprio la ‘nuova frontiera’ dei 10.000 anni di pace: quel ‘comando’ in cui si erano riconosciuti tutti i popoli che nel 1948 avevano firmato la carta delle Nazioni Unite.
Ma quanto tragicamente ha ragione Edgar Morin quando oggi ci dice, dalla profonda sapienza dei suoi 104 anni: quello che ci insegna la storia è che non impariamo dalla storia…
E tuttavia ora il tempo del sonnambulismo è scaduto. L’epoca dell’arma atomica e dell’Antropocene ci obbligano a uscire dalla plurimillenaria età della guerra e dello sfruttamento illimitato della Terra. Potrà esserci una civiltà della pace e della Terra? Si tratta per l’umanità di un passaggio evolutivo che certamente oggi appare improbabile e semmai immaginabile su tempi molto lenti. Ma la posta in gioco è tuttavia resa ineludibile e urgente proprio dal bivio di fronte al quale l’umanità si trova: cambiare o perire. La pace si profila non più solo come un imperativo morale, ma come un imperativo di sopravvivenza per l’umanità.
L’utopia della pace universale è ormai l’unica forma di realismo…
L’anelito alla solidarietà e alla pace oggi fermenta nella concretezza delle fragilità condivise, simultaneamente in ogni angolo del mondo. E fermenta nella necessità, altrettanto improcrastinabile, di rendere le nostre interdipendenze non solo un dato di fatto, ma anche un’aspirazione e un progetto comuni.
La storia ci trascina oggi in una drammatica biforcazione: siamo sull’orlo di un oscuro precipizio. Ma nello stesso movimento siamo sulla soglia di un possibile strepitoso salto nel processo di umanizzazione. Nonostante tutto, si sta formando la coscienza del fatto che nessuno si salva da solo. E verso questa coscienza ci orienta, se la vorremo seguire, la stella cometa di una fraternità planetaria che si intravede nell’oscurità del tempo con cui si compie questo primo quarto del nuovo secolo.
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