L'ANALISI
02 Dicembre 2025 - 05:25
In Italia il tema della tassazione e della riforma del sistema fiscale è, da lungo tempo, tra i più discussi e gettonati. Senza che questo produca mai però i risultati annunciati. Al massimo qualche marginale aggiustamento del sistema che, nella sostanza, continua a restare invariato. Pagare le tasse non è mai piacevole. Non lo è accettare di dover sottrarre una parte delle proprie entrate, costruite con sacrificio, alla possibilità di poterne usufruire direttamente. Bisogna sentire necessario questo sacrificio, riconoscendone l’interesse superiore che lo giustifica.
In questo senso, il compito della politica è proprio quello di costruire quel clima di fiducia nel quale l’adempimento tributario sia sentito prima di tutto come un dovere morale. Piuttosto che come un semplice obbligo giuridico. Un clima di fiducia da parte della politica si crea con la responsabilità (che significa far sì che il prelievo tributario sia sempre destinato a coprire solo e soltanto una spesa effettivamente utile), con la coerenza (che significa non inseguire sempre e solo le necessità di gettito), con la trasparenza (che significa operare sulle aliquote e non soltanto sugli imponibili) e, infine, perseguendo la semplicità (delle regole, degli adempimenti e delle scadenze). Inutile dire che non è purtroppo questo il clima che, in ambito fiscale, da troppo tempo viviamo oggi in Italia. In questo contesto e, più in generale in mancanza di una visione complessiva di sistema, si inserisce da ultimo il dibattito sulla cosiddetta ‘patrimoniale’, vale a dire sull’opportunità di introdurre una nuova tassa aggiuntiva sui grandi patrimoni.
Una proposta, diciamolo chiaramente, di fatto già morta ancor prima di nascere. Non solo perché non la vuole il governo in carica, ma perché non trova neppure unanimi le opposizioni. Un dibattito quindi, di fatto, sul nulla. Niente di più quindi che uno specchietto per le allodole (che poi, in questo caso, saremmo noi cittadini). Tuttavia, quattro cose sul tema della patrimoniale possono ugualmente dirsi.
La prima è di non dimenticare mai che i patrimoni (grandi o piccoli che siano) sono comunque creati da redditi o per effetto di diritti successori. In entrambi i casi quindi, in vario modo, sono comunque già stati tassati una prima volta all’origine. In altre parole, si può certamente discutere se le aliquote di prelievo all’origine siano adeguate, ma non sul fatto che questi patrimoni una tassazione l’abbiano comunque già subita.
La seconda è che ‘anche i ricchi piangono’ è una frase profondamente sbagliata. I veri progressisti combattono la povertà, non la ricchezza. La ricchezza è un’aspirazione legittima che è giusto poter coltivare. Il problema non sono infatti i ricchi (che pagano le tasse, danno lavoro, investono e creano Pil), bensì i falsi poveri (quelli che occultano, fraudolentemente, i redditi reali conseguiti). Non confondiamoli mai, per carità.
La terza è che ‘chi ha di più, deve dare di più’: è invece una frase giusta. Ma che non può farci dimenticare che quasi il 90% degli italiani paga oggi tasse sui redditi che non sono neppure sufficienti per coprire la propria quota della sola spesa sanitaria. Una spesa per prestazioni sanitarie di cui comunque ciascuno usufruisce. Per cui siamo in una situazione in cui, oggigiorno, è piuttosto vero che troppi pagano poco e pochi pagano troppo.
La quarta è che la dobbiamo smettere di inserire modifiche a raffica che finiscono per scassare ulteriormente l’intero sistema a beneficio di quelli che si ritiene siano, di volta in volta, i rispettivi elettori di riferimento (una miriade sconfinata di detrazioni e deduzioni fiscali, gli 80 euro, la flat tax per gli autonomi, ora, la patrimoniale, tanto per dirne alcune) senza avere mai il coraggio, nonostante gli annunci, di ripensare e, conseguentemente, di riformare questo sistema fiscale nel suo complesso.
Una politica davvero responsabile, ricordiamocelo sempre, il consenso lo crea, non si limita solo ad inseguirlo. Perché dobbiamo anche dirci che essere ricchi, in un Paese civile e democratico, non può essere una colpa. Deve, al contrario, risultare una legittima aspirazione. Per chiunque. Chiaramente i maggiori redditi prodotti devono essere tassati con aliquote progressive, come prevede la nostra Costituzione (chi ha di più deve, giustamente, dare di più) e l’eventuale evasione fiscale deve essere perseguita con assoluto rigore.
Su questo non ci devono essere dubbio, incertezze. Ma una volta osservata la legge e pagato quello che questa prescrive con criteri appunto di progressività, a quel punto il conto si deve per forza chiudere. Perché se vogliamo crescere e progredire, creare benessere e occupazione, offrire una prospettiva di futuro ai nostri figli, allora bisogna liberare e incoraggiare la voglia degli italiani di intraprendere in un contesto di economia di mercato, libera e concorrenziale. Non c’è di certo futuro e progresso in un’economia di Stato, paternalistica e assistenziale. Perché è proprio questa la domanda di fondo che ci dobbiamo fare.
Chi sono i progressisti oggi? E chi sono, per converso, i reazionari? Voglio chiarire che questa è una questione che, a mio avviso, ha poco a che fare con la tradizionale divisione tra destra e sinistra. Perché si può essere reazionari di destra, quando si ritiene che la povertà sia la conseguenza diretta del mercato che premia i migliori e punisce pigri e fannulloni. Ma si può essere anche reazionari di sinistra, quando si arriva a credere che la lotta alla miseria consista nell’eliminare i ricchi, anziché i poveri. In sintesi, i progressisti sono quelli che lavorano per far crescere la torta, i reazionari quelli che operano solo per contendersi la fetta.
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