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I morti furono 132, di cui 119 civili

10 luglio 1944, la morte dal cielo. Settant’anni fa il bombardamento americano su Cremona

Gigi Romani

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lromani@laprovinciadicremona.it

09 Luglio 2014 - 17:25

10 luglio 1944, la morte dal cielo. Settant’anni fa il bombardamento americano su Cremona

«Quartieri popolari duramente colpiti»: l’11 luglio del 1944 Il Regime fascista diretto da Roberto Farinacci ridusse la cronaca del drammatico bombardamento del giorno precedente a una colonnina nelle pagine interne. «Si lamentano numerosi morti e moltissimi feriti, in gran parte donne e bambini», si legge nell’articolo, infilato tra la lettera di una donna di Soncino che chiedeva «di essere utile alla mia Patria» e una petizione per raccogliere materassi e coperte a favore degli sfollati dell’Italia centrale, accanto alla pubblicità di un borotalco borato, di «una colla che non molla» e di una carta moschicida.

Ma i cremonesi non avevano certo bisogno di leggere le righe edulcorate del giornale di Farinacci per sapere quello che era successo il giorno prima, in quel 10 luglio di settant’anni fa che era cominciato come un qualsiasi lunedì di guerra, con la gente a fare la spesa o a sbrigare commissioni, gli uomini che non era stati richiamati al lavoro e i ragazzi impegnati con qualche incombenza. C’era il sole, faceva caldo, tutto era tranquillo come poteva essere tranquillo un giorno di guerra. L’inferno scoppiò all’improvviso, alle 10,44, quando le sirene suonarono l’allarme. Le bombe caddero in contemporanea, in sei ondate successive, per un totale di una cinquantina di ordigni di medio e grosso calibro. L’allarme fu dato con troppo ritardo, quasi nessuno riuscì a raggiungere i rifugi.

L’obiettivo degli aerei americani B17 Fortezze Volanti era la stazione, ma furono pesantemente colpite anche parecchie zone vicine: porta Milano e via Palestro, il cimitero, il mulino Rapuzzi al bivio della strada per Piadena-Olmeneta, i campi di mais oltre la Cremonella, via Sauro, la Cavalli e Poli, via San Francesco. Il bilancio fu pesantissimo: i morti furono 132 (compresi tredici militari tedeschi), i feriti almeno un centinaio. La categoria più colpita fu quella dei ferrovieri, caduti in ventisette mentre erano sul lavoro. Tra le vittime ci furono anche dei bambini: Fioretta Doria, che di anni ne aveva 5 come Enzo Pradella, e Gianfranco Rossi di 10, e i fratellini Lino e Ivana Camozzi, sei mesi lui, che fu trovato senza segni di ferite e il dito in bocca come quando dormiva, e 4 anni lei. E poi tanti ragazzi, naturalmente. Uccisi dalla guerra, nelle loro brevissime vite conobbero poco altro.

Bastarono una decina di minuti a portare morte e distruzione in città. «Immediatamente si mettono in moto i soccorsi — ricorda Gianluigi Boldori nel suo 10 luglio. Piccola storia cremonese edito dall’Associazione Dopolavoro Ferroviario —. E’ una gara di solidarietà, oltre ai Vigili del Fuoco, ai militari, alle ambulanze, accorrono auto e furgoni privati, i parroci delle chiese di Sant’Agata, di Sant’Ambrogio, di Sant’Ilario e di altre parrocchie, i Padri Barnabiti, i Padri Cappuccini, i Padri Francescani, tanti volontari». Anche reperire le bare fu un problema, fu necessario farle arrivare dai paesi limitrofi, ricorrendo spesso a casse ancora grezze. Le camere mortuarie vengono allestite all’ospedale e al cimitero, per un paio di giorni ci fu il triste pellegrinaggio dei parenti che andavano a riconoscere le vittime.

Le messe di suffragio e i funerali furono rapidi: «La frequenza degli allarmi non consente lunghe funzioni», ammise l’arcivescovo Giovanni Cazzani nell’avviso che fece affiggere sulla porta di tutte le chiese cittadine.

Il ricordo del bombardamento del 10 luglio del ‘44 è rimasto indelebile nella memoria di chi lo ha vissuto. Le urla dei feriti, le macerie, i corpi dilaniati, l’odore acre, il fumo e la polvere, quella strana nebbia che sembrava avvolgere ogni cosa, il cessato allarme che venne suonato solo intorno alle 13, con i bombardieri che continuarono a fare incursioni, mancandolo, contro il ponte sul Po. E poi l’angoscia di aver perso qualcuno, di dover correre a casa senza sapere chi e cosa si sarebbe trovato. Settant’anni dopo resta la memoria di una ferita collettiva.

Barbara Caffi

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