Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». Ma egli negò di nuovo, giurando: «Non conosco quell’uomo! ». Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce». Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.
Domenica, verso mezzogiorno, sono stato a Brescia, all’Ospedale Civile, per andare a trovare Michael, un ragazzo dell’oratorio di quand’ero giovanissimo prete, ormai sposo e padre di due splendidi bambini. All’entrata centrale mi si avvicina un barbone, di corporatura abbastanza consistente. Capelli lunghi, sporchi, unti. L’aspetto mi colpisce fortemente e l’odore che il suo corpo emana ancora più intensamente. Ha addosso vestiti logori, macchiati, camicia aperta sul davanti e—mi perdonate — un odore impressionante che mi avvolge, nonostante, forse per rispetto, non mi si avvicini più di tanto. Ho già preparato l’offerta, prevendendo di incontrare qualche personaggio del genere e avendo fretto di raggiungere il reparto in un ospedale che è una città. Lui mi guarda e rimane, con la mano tesa, sussurrandomi qualche parola ben augurante, da una bocca rotta e senza denti che completa il ritratto. Lamano intasca estrae l’eurorituale elo deponesulla sua manona, tesa a ricevere, forse, più un sorriso e una parola, un pezzo di pane da condividere che un’offerta sbrigativa e accomodante. La mia mano non tocca la sua e gli sguardi non s’incrociano affatto. «Sei di Brescia?». «Sì». Il dialogo lapidario assolve le formalità e si consuma in pochi secondi. Mi avvio verso il reparto, ma mi prende una domanda. «Chi ho incontrato? Come mi sono comportato?». Leggendo la Passione di Cristo e in prospettiva preparandomi, domenica, all’ultima settimana di quaresima, non mi ha colto un senso di colpa. Anzi, devo vegliare di non abituarmi a quelli per non giustificarmi troppo facilmente. Mi ha preso, invece, un senso profondo di lontananza da Dio. Lo servo, lo predico, dico di amarlo, ma se si presenta fuori dai miei schemi né lo vedo, né lo abbraccio, né lo accolgo. Il Signore stesso, condotto a forza davanti al Sinedrio, a Pilato, ingiustamente fustigato e condannato, crocifisso e schernito è l’immagine di quel povero di Brescia. Anche Gesù, perdonatemi l’accostamento reale, non avrà emanato un buon profumo di pulito, sarà stato coperto di sangue, di sputi, di sudore, di vergogna. Sì, proprio Lui, il Figlio di Dio che seguiamo in questa Settimana Santa. Sono tornato immediatamente indietro all’e nt r at a per cercare quel povero, per parlargli e quasi scusarmi per la freddezza. Non c’era più. La piazzetta antistante l’Ospeda - le era completamente vuota. Mi sono sentito come l’aposto - lo Pietro. Entusiasta del suo Maestro e, nel momento della Passione, pauroso di seguirlo e di soffrire con lui. Credente e praticante di una religione che non incontra il Dio vero. Auguro a tutti di non aver paura di accogliere il Signore nei riti e negli incontri di questa settimana. Lui stesso, povero e umiliato, ci salvi dalla tentazione d’incontrarlo superficialmente, senza troppo lasciarci trasformare e coinvolgere. La Pasqua è grazia di conversione. Anche di lacrime, talvolta. Se il nostro cuore si lascia trasformare da Cristo la nostra vita diventa solamente amore. Una grazia impagabile. don Marco d’Agostino