L'ANALISI
1945-1948 Una pagina cremonese
24 Marzo 2015 - 13:13
Cartolina di buon anno da Cremona con la foto di tre ragazzi
CREMONA —Per i sopravvissuti all’Olocausto, l’Italia divenne il principale luogo di transito sulla via della Palestina. Nel 1947 oltre 40mila rifugiati ebrei provenienti per lo più dall’Europa dell’Est, vennero ospitati nei 124 DP Camps italiani, campi di accoglienza organizzati dalle Nazioni Unite. Dp stava per Displaced Persons, ovvero sfollati, profughi, ‘s pos ta ti’, insomma quella eterogenea massa di persone che si trovava al di fuori dei confini dei propri paesi d’origine e che aveva necessità di essere ‘ricollocata’.
Cremona fu uno dei maggiori DP Camps del nord Italia, tra il 1945 e il 1947 ospitò fino a 1.200 persone, in maggioranza ebrei polacchi, ma numerosi furono gli ungheresi, i baltici, gli jugoslavi. Ragazzi, adulti e anziani all’ombra del Torrazzo trovarono un rifugio sicuro. Uno spicchio di storia rimossa dalla memoria e riportata alla luce dalla appassionata relazione che Angelo Garioni, architetto e studioso di storia locale, ha tenuto n e ll’ambito della rassegna ‘Un tè in biblioteca 2015’, promossa dalla Biblioteca del Seminario.
Garioni ha brevemente inquadrato il momento storico- politico all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale per poi entrare — con il supporto di un ricco apparato iconografico — ne l l a storia culturale e sociale della vita del DP Camp cremonese. In città i profughi furono accolti nei grandi spazi del parco dei Monasteri: San Benedetto, Corpus Domini e Santa Chiara (le ex caserme Pagliari, Sagramoso e San Martino) e nell’oratorio di Sant’Il a r io . L’apice degli arrivi risale a 1946: si trattava per lo più di ebrei polacchi sopravvissuti prima alla persecuzione sovietica, poi a quella nazifascista e che dalla Polonia erano fuggiti dopo le improvvise e feroci manifestazioni di antisemitismo scoppiate a Varsavia e nelle maggiori città del paese baltico. Attraverso il Brennero e Tarvisio di notte, a piccoli gruppi e fra mille difficoltà, avevano raggiunto Milano dove vennero accolti e indirizzati verso i DP Camps.
Si erano ritrovati senza casa e senza cittadinanza, provenivano da culture diverse e da diverse esperienza di vita. Parlavano polacco, yiddish, bielorusso, ucraino, tedesco. Svilupparono però un senso di coesione molto forte tanto da formare vere e proprie comunità attive e dinamiche. Cremona era soltanto una tappa del viaggio verso la Palestina, la patria dei loro avi, oppure verso gli Stati Uniti, la terra della libertà. Dopo il 1948 a Cremona non ne rimase nessuno. Qualcuno tornò quarant’anni dopo per ricordare il passato, rivedere quei luoghi e abbracciare quelle persone che li avevano accolti e aiutati a ristabilirsi in salute, imparare un mestiere, ricostruire la dignità perduta.
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Tè e fagioli a marchio ‘Unnra’ Il rabbino all’osteria della Nena
CREMONA — Furono numerose le agenzie internazionali (come l’U NNRA, United Nations Relief and Rehabilitation Administration) a preoccuparsi del buon funzionamento del campo cremonese: gli ospiti disponevano di camere, cucine e bagni in comune, venne aperta la sinagoga (tutti erano religiosissimi), un teatro, si organizzarono circoli culturali e sportivi. Se rintracciare in città e nei dintorni insegnanti che parlassero polacco, yiddish, lituano almeno agli inizi, si rivelò impresa non da poco, bambini e ragazzi ebbero comunque un’istruzione adeguata, mentre negli ampi locali delle caserme vennero aperti laboratori di falegnameria ed ebanisteria e un centro per l’e d u c azione professionale per adulti. Nel campo circolarono una moneta e un giornale. Dopo gli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, i sopravvissuti desideravano solamente tornare alla normalità. Il campo non era un ghetto, e di lì a poco perse il carattere di provvisorietà, tanto che i cremonesi finirono per vedere gli ebrei non tanto degli stranieri quanto vicini di casa e viceversa. Sulle mense delle famiglie di Sant’Ilario comparvero presto confezioni di tè, margarina e legumi in scatola (soprattutto fagioli) con il marchio dell’Unnra, merce di scambio o dono dei profughi alle massaie alle prese, in quel primo dopoguerra, con la scarsità di cibo e denaro. Gli ebrei mantennero, però, le consuetudini tradizionali. La stampa dell’epoca riporta la notizia (gennaio 1947) del matrimonio di due giovani ebrei celebrato all’osteria della Nena, in via Bissolati, dove «i tavoli abituati ai pugni della morra e al busso del tressette apparivano inconsueti sotto le tremula luce di decine di sottili candele, alternate sulla tovaglia scintillante da alzate ricolme di dolci zuccherosi» mentre il rabbino «dondolavaavanti eindietro intonandoun canto». Se dimenticare era possibile, i giovani sposi dell’osteria della Nena avevano intrapreso la strada giusta.
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