L'ANALISI
Individuato il rosso atavico, diretto discendente della bevanda utilizzata nel Medio Evo
14 Giugno 2016 - 11:30
Giovanni Baldesio o Zanen de la Bala, quasi tutti i cremonesi conoscono questo cavaliere della Cremona pre-comunale dell’undicesimo secolo che ebbe l’ardire di affrontare il figlio dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico IV, sfidandolo a singolar tenzone, con la posta di abolire il tributo di una palla d’oro che i cremonesi dovevano consegnare tutti gli anni all’Erario Imperiale. Racconta la storia che, in una afosa giornata d’estate, fuori dalle mura di Porta Mosa, il nostro prode campione disarcionò da cavallo il Pupillo imperiale, colpendolo con la sua lancia ed evitando a sua volta il colpo della lancia germanica. Sceso da cavallo si avvicinò con la spada sguainata al principe che era a terra nella polvere ed ottenne subito la sua resa, a cui seguì un esplosione di tripudio da parte del pubblico che assisteva trepidante all’evento, dalle mura.
Mentre il triste principe germanico risaliva sconsolato le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza, i cremonesi dopo aver regalato a Berta, fidanzata di Zanen, la palla d’oro come dote per il suo matrimonio con il prode cavaliere, iniziarono i festeggiamenti che, secondo la tradizione durarono più di un mese, mangiando e bevendo ingenti quantità di vino, tanto da confondere se la bala era l’oggetto della contesa, oppure la ‘bala’ era lo stato di euforia collettiva provocato dalle libagioni reiterate.
Ora da enologo, come si suole dire, mi sorge spontanea una domanda: quasi mille anni fa che vino si poteva bere a Cremona? Va detto subito che a Cremona si è sempre bevuto il vino, inoltre come si può rilevare dai documenti conservati presso il locale Archivio di Stato, fino a duecento anni fa, nell’agro cremonese, si coltivava la vite con una certa intensità. Le viti, che allo stato selvatico, vegetavano nei boschi avevano bisogno di un sostegno e quindi si coltivavano con la tecnica delle alberate: erano cioè sostenute da alberi, per lo più pruni od olmi. Sembra incredibile una tale affermazione, perché tutti sono al corrente che Cremona è attualmente leader nazionale nella produzione del latte e dei suoi derivati, nonché del mais, ma un tempo si producevano grandi quantitativi di vino, per lo più destinato al consumo interno.
Verso il 1830, l’Amministrazione Asburgica, a seguito di studi effettuati nelle Università di Vienna, di Budapest e di Milano, emanò delle nuove linee guida per rendere più redditizia la coltivazione dei terreni agrari nel Lombardo-Veneto. Fu così che la vite, nel cremonese, perse interesse economico e fu tra le colture soppresse. Mentre si espandevano la coltura di mais, frumento, canapa e leguminose, il tutto corroborato dall’uso di nuovi concimi, si sviluppava l’attività zootecnica e l’industria casearia. La vite si continuò a coltivare in terreni adatti, ma in un territorio marginale alla Provincia e cioè tra Motta Baluffi, Piadena, Viadana, poi nel mantovano: Quistello, Gonzaga. Ritengo interessante, per risalire al vitigno che era in auge nei campi cremonesi circa mille anni fa, comprendere come era arrivata la vite nelle nostre zone. La vite esisteva da tempo in Pianura Padana, e si deve agli Etruschi l’introduzione dell’arte di fare e conservare il vino. Infatti tra il VII ed il V secolo A.C. , gli Etruschi portarono nel Nord Italia le loro ‘usanze enoiche’ che prevedevano la pigiatura dell’uva, eseguita con i piedi, le filtrazioni da effettuarsi con teli di lino e, dopo la fermentazione, la conservazione in giare interrate. Il trasporto era eseguito con anfore.
Sappiamo che la vite era coltivata assiduamente nel cremonese già in epoca romana, ed il vino era ottenuto vinificando l’uva locale, in quanto molto raramente si poteva disporre di vini o di uve di importazione dai territori limitrofi.
Poi, circa millecinquecento anni fa, arrivarono i Barbari. I terreni agrari in pianura caddero nell’incuria e nel dissesto. Cremona resistette ben 34 anni all’assedio dei Longobardi. Quando Cremona cadde, la città era ormai fatiscente. Pur essendo ancora Sede Vescovile, il Rappresentante del Duca longobardo di Brescia, pose la sua sede a Sex Pilum (Sospiro).
Dopo l’abbandono e l’impoverimento delle campagne, a seguito della caduta dell’Impero Romano ed il periodo dei così detti ‘secoli bui’, passato l’anno mille, un nuovo fenomeno sociale e culturale, intervenne per vivificare le campagne: si tratta del ‘Monachesimo’.
I monaci Cistercensi di provenienza francese e quelli Benedettini, iniziarono con tecniche apprese dagli Arabi in Spagna, a bonificare i terreni, rendendoli coltivabili e quindi produttivi.
Dal 1135, San Bernardo, abate cistercense di Clairveaux , venne a Milano e nel giro di pochi decenni rivoluzionò l’agricoltura e si ricominciò, fra l’altro, a coltivare la vite per produrre vino.
La vite (Vitis vinifera o lambrusca) era rappresentata per lo più da un vitigno particolare: il Grappello. Esso aveva un habitat naturale che si estendeva da dove un giorno sarebbe sorta la città di Alessandria, giù ai lati del fiume Po fino a Modena e poi su attraverso la Retia e la Lessinia, fino a Trento. Studi di genetica recenti, effettuati presso l’Università di Milano, hanno dimostrato che il Grappello Ruperti, è caratterizzato da un DNA che ne fa il ‘padre’ di tutti gli altri Lambruschi, coltivati a destra ed a sinistra del Po. Tanto per citarne alcuni: L. di Sorbara, L. Maestri, L. Marani, L. Grasparossa, L. Salamino, L. Mazzone e L. Viadanese .
Dunque, dopo l’anno mille, nel cremonese si coltivava un vitigno che dava uve rosse, da cui si ottenevano dei vini rossi robusti, dal profumo di viola, carichi di colore e di tannino. Al consumo era consuetudine ingentilire la bevanda, addizionandola di piccole quantità di miele.
Il nome ‘Ruperti’ è stato aggiunto per ricordare lo studioso (ampelografo) che nello scorso secolo aveva evidenziato il vitigno Grappello come pianta autoctona.
A questo punto della storia, avevo elementi sufficienti per andare alla ricerca del ‘vitigno perduto’ e cercare se la pianta si coltivava ancora e soprattutto se qualche cantina producesse quel vino che era diretto discendente di quello usato dai cremonesi per festeggiare la vittoria del loro campione Zanen.
Detta così, l’impresa non sembrava facile. Come tutte le avventure, era necessario procurarmi un compagno di viaggio che individuai nel sempre entusiasta Carlo Vittori, e così andammo ad indagare nei territori orientali della Provincia di Cremona, dove presumibilmente si poteva ancora trovare l’atavico vitigno.
Fortuna volle che, non solo individuammo alcune zone dove il vitigno si coltivava ancora, ma presso una Cantina potemmo assaggiare il diretto discendente del rosso vino che tanti anni fa i nostri antenati bevevano abitualmente e per festeggiare le loro ricorrenze. Così, carichi di soddisfazione per il risultato ottenuto, dopo aver impostato l’etichetta e tutti gli elementi significativi dell’imballaggio, potemmo finalmente coronare la nostra ricerca, battezzando la bevanda: ‘Rosso della Disfida’.
Carlo Bertolini
(enologo)
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