L'ANALISI
Bella prefazione e sei monologhi di Bennett, inglese sarcastico
24 Maggio 2016 - 16:10
«Forse la gente penserà che siamo un po’ particolari qui a Lawnswood. In quel caso sbaglierebbe». Eppure i personaggi di questi racconti-monologhi di Alan Bennett, nati per la tv britannica, hanno la incredibile capacità di convivere con normalità con le situazioni più incredibili o aberranti, come nulla potesse smuoverli dal proprio piccolo egoismo, dalle proprie abitudini. È l’incapacità di andare oltre gli orizzonti del quotidiano e dei propri vicini della piccola borghesia di provincia, che è il bersaglio del sarcasmo di questo autore, della sua scrittura che si pone sempre dal loro punto di vista. Si pensi al protagonista de ‘Il gioco del panino’, col suo vizio terribile, con le sue menzogne che finiranno per riportarlo in galera, ma anche il suo amore per il lavoro ben fatto di curatore di giardini pubblici, per farsi amare dai superiori e dalla gente. Poi al rapporto di assoluta insopportabilità tra una signora, una ex maestra, e suo marito Stuart, che lavora al macello e torna a casa tutto sporco di sangue e in più ha una cagna, Tina, che lascia peli in giro e abbaia a sproposito, attirandosi anch’essa l’odio della moglie. Una moglie che tiene la casa sempre tutta in ordine estremo, maniacale, dalla moquette alla cucina, che non si occupa d’altro e fa togliere gli scarponi a Stuart per entrare in casa e poi anche a dei poliziotti che suonano alla porta facendo delle indagini, che incrimineranno il marito per due omicidi di donne nel circondario, con finale a sorpresa. Su sei monologhi, in cinque a parlare sono donne, e queste voci femminili, questa loro casalinghitudine tutta inglese e privacy, questo tono e i riferimenti al quotidiano sembra vengano dal fatto che Bennett dice di essere cresciuto circondato da donne. Lo spiega in una lunga prefazione alla raccolta, godibilissima grazie a quella leggerezza e a quell’ironia disincantata che sono la caratteristica di questo autore, che come senza parere crea caustici ritratti del mondo in cui vive. «Magari mi metto a scrivere con l’intenzione di far ridere, ma ormai è raro che il risultato sia comico», racconta, citando la cupezza di questi sei racconti, che per questo dice di aver tenuto a lungo da parte, pur non nascendo da «una visione del mondo più deprimente» legata all’invecchiare. Ecco che elenca alcune annotazioni, sostenendole casuali: «Ci sono degli elementi ricorrenti, noto, che possono tradire idee fisse ma anche la povertà della mia immaginazione», come i cani o la descrizione delle scarpe, dei piedi e dei podologi: da giovane dice di aver assistito a una visita a sua madre «e la situazione mi sembrò comicissima», senza dimenticare che sua zia lavorava in un negozio di scarpe. Poi l’apparizione dell’ictus, se non altro «perché mi sto avvicinando a un età in cui questo tipo di problema comincia a preoccuparmi». Quindi parla dell’assenza di figli in queste pagine: «Mi sembra che i figli confondano le acque, mitighino le tristezze e, con tutti i problemi che hanno, pretendano di essere accuditi: vogliono dire la loro e sono poco maneggevoli in scena come nella vita». A questo aggiunge una vera digressione sui negozi di antiquariato (in uno di questi lavora la protagonista di uno dei monologhi), sul prevalere dei mercatini, sul vendere vecchie cose di famiglia, per concludere «mi mancano i negozi di antiquariato di una volta» e li descrive, «sapendo che tutto questo è un po’ snob».
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