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12 aprile 1959

Don Primo Mazzolari è morto

La sua Santa Messa si è conclusa con un improvviso commiato: dall'altare

Annalisa Araldi

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aaraldi@publia.it

12 Aprile 2020 - 07:00

Don Primo Mazzolari è morto

Il suo splendido dialetto

È morto don Primo.

Scompare con lui un singolare piccolo, mondo interiore. Chi lo abbia conosciuto da vicino riesce a comprendere che la sua conversazione con gli altri,— cogli amici e coi lontani — non fu che un fluente o nervoso soliloquio. Il libro e la conferenza, il colloquio personale e il discorso di circostanza, la predica festiva o una missione fra il popolo non schiudevano di lui che lembi d'una lunga meditazione personale, nata nelle ore d'attesa della chiamata sacerdotale o sugli argini di Cicognara o accanto alla «pieve di campagna». In questa solitudine ingenua l'espressione della sua parola suonava, ora piena di serena dolcezza umana, ora vibrante d'impegno cristiano, ora cosciente d'un volontario cammino dietro la croce, ora disordinata e traboccante di amarezze e di urgenze. In questo risuonare confuso di voci si potè talvolta intendere anche qualche tono meno felice o meno consueto. Ma quando si sia riusciti penetrare nello spirito di quel linguaggio, e, attraverso la parola e oltre l'ansietà della voce inquieta arrivare, al cuore non si poteva trovare che la voce del sacerdote «del prete» diceva don Primo; che sapeva parlare un suo sublime dialetto. Le sue parole avevano la fragranza del pane; vi si specchiavano lembi di cielo lombardo.

Erano parole che nascevano come in un paesaggio interiore, quieto e dolce, pieno della solitudine viva dei campi e degli argini in fiore. Più essenzialmente il suo fu linguaggio emotivo, un linguaggio poetico.
Quanti abbiano voluto ricercare motivi teologici o spunti dottrinali, anche nelle affermazioni sconcertanti di qualche sua battuta, imposero forse a quel linguaggio limiti e dimensioni che esso non ebbe mai.

La sua frase rimaneva spesso sospesa ed informe; più pronta a suggerire pensieri e impressioni che a creare una logica. È il linguaggio del popolo dei campi, umile e frammentario. Questo «prete» sapeva comporre i frammenti come la materia d'una consacrazione; allora tante volte le proteste, le idee, le testimonianze,  le stesse tonalità della voce che sembrava sforzarsi di sgorgare, se avesse potuto, dall'anima, avevano il senso e le sfumature di una preghiera profonda e inquieta.

UMANESIMO CRISTIANO
Con queste ansiose petizioni nell'anima, don Primo indugiava istintivamente in un suo umanesimo spirituale. I fedeli della «pieve», le figure umane, quante appaiono nel fresco novellare di «Tra, l'argine e il bosco», le figure dei confratelli sacerdoti cui elargì sublimi carità di fraterni colloqui e di discorsi funebri, perfino le vecchie immagini dei parroci, appese ai muri della sagrestia di Bozzolo, sentivano un po' tutte della sua vita interiore. Erano frammenti dell'unico spirito, che cercava l'Uomo evangelicamente, con delicata ostinazione e con una pietà indulgente e non senza brividi d'amarezza e di sdegno. Da questo mondo umano si staccava per elevarsi: elevazioni sono «La più bella avventura», «Il Samaritano», «Tempo di credere», «La Samaritana», «Tempo d'amare».  

È sempre una elevazione solitaria, fatta, più che di progressioni, di alternanze, quasi completate dall'interiore ritmo «di scendere verso ciò che è umano, e terreno per slanciarsi vivamente in una splendida corsa spirituale. L'avventura era un suo stato d'animo e una frequentazione delle sue vive interpretazioni: avventura era la venuta di Cristo tra gli uomini, avventura la fuga del prodigo, apostolato avventuroso l'inoltrarsi nella umanità per la ricerca dei lontani. Anche la sua sobria vita di curato di campagna a Cicognara e a Bozzolo, come prima i patetici incontri dei più freschi anni sacerdotali e della vita militare — incontri e distacchi — non mancarono delle loro avventure: aggressioni morali, rivoltellate, arresto, sorveglianza, ammonizioni, battaglie, discussioni, denunzie alle pubbliche autorità.

Qui entreremmo in piaghe che non furono chiuse se non dalla morte. Ma sua precipua avventura fu quella di aver cercato, combattuto e sofferto per i «suoi» e per i «lontani», che egli congiunse o confuse in abbraccio sacerdotale: in quell'atteggiamento oratorio, che gli era familiare quando spalancava le braccia, sia parlando che pregando le orazioni del Canone. I lontani — con ampia teologia della Carità — erano tutti quanti avessero più bisogno del sacerdote.

IL PRETE DI CAMPAGNA
In questa, ansia di riconciliazione trovava per vita vissuta appassionatamente — motivo essenziale di fiducia nel sacerdozio. Amò teneramente e spasmodicamente «il prete». Ne vide la funzione spirituale di conciliare al Padre nostro, noi, il mondo: il mondo dei padroni e dei: contadini, dei ricchi e dei poveri, più di questi che di quelli. A contatto come «prete» delle miserie, delle sopraffazioni, delle coercizioni - poichè valeva più «l'aria» del «pane», come diceva spesso nei suoi colloqui con il suo popolo —, cosciente che le posizioni sociali sono più indici di responsabilità che riconoscimento di meriti, condusse una sua crociata di campagna a favore di coloro che dovevano sopportare — non sempre volontari cirenei — oltre che il peso della propria giornata anche la croce degli altri. In tale comprensione non ci furono : pauperismo, motivi oratorii, colori politici. Scavalcava le tentazioni dei retori per istinto di umanesimo cristiano che offre la visibilità di scorgere, sotto le specie del povero, come in una palpitante eucarestia umana, la realtà di Cristo presente tra gli uomini. Anche in questo settore, spesso saturo di equivoci e di malintesi, egli visse la sua avventura caratteristica di «prete», cui tutto diventava — per il tramite di Cristo — domestico. La parrocchia concepita come un focolare, la vita sociale intesa come una comunità spirituale, Cristo al centro dell'una e dell'altra; alla sua ombra crocifissa, tacitamente prossima e rievocata, la figura del prete: questo era il mondo comunitario cristiano che egli viveva e che egli lascia, quale testimonianza di spirito.  Vivendo la civiltà interiore del sacerdozio, egli sapeva che era grande l'umile vita dei gregari, dei militi ignoti, dei solitari, confratelli, che fossero presenti - accanto a Cristo, e come al suo  posto, sotto l'ombra di un campanile o accanto.  

ALL'AVANGUARDIA
Gli anni del suo apostolato  sacerdotale lasciarono anche nelle pievi di campagna, sugli argini del Po e fra i boschi della pianura tracce di convulsioni e di  lotta. Per capire meglio il mistico Corpo di Cristo — i fedeli viventi e sparsi nel mondo —, bisogna comprendere anche l'intima presenza del mistico corpo del male, alimentato dagli uomini di cattiva  volontà e vitalizzato dalle passioni, dai contrasti, dalle violenze. Dalla grande guerra del 1915, cui partecipò, all'avvento del fascismo, dalla seconda guerra mondiale del 1939  al temuto avvento del comunismo, egli pagò personalmente la sua fedeltà al «prete di campagna», che ha scelto come suo inimitabile simbolo la Croce e come suo singolare «compagno» Cristo. Una delle opere, più discusse di don Primo fu appunto «Il compagno Cristo» edito nell'immediato dopoguerra. Il compagno Cristo non era che un simbolo d'una sua contrastata presenza fra gli uomini; né aveva altre accezioni. Il Vangelo si piegava, sotto lo sforzo di un adattamento alle nuove circostanze umane, a frangersi in una antologia di impulsi e di elevazioni: dalle quali nascevano i suoi conati di un cristiano impegno d'avanguardia, che ebbe la sua espressione travagliata, nella pubblicazione di «Adesso». Don Primo si faceva  interprete di una inquieta sofferenza di porzioni vitali della Chiesa; spronava verso impegni sociali di ispirazione evangelica, e — sempre sotto la suggestione della parola di Cristo — suscitava problemi, discussioni, conversazioni,  incontri in modo che tutto fosse a livello dei «preti di campagna» come sofferenza o come confessione, talvolta come sfogo e sempre come sincerità.

A chi obbiettasse la sovrabbondanza della parte critica, talora sconcertante di alcuni suoi editoriali e della tolleranza, talora compiaciuta, delle altrui opinioni, rispondeva serenamente, che egli era come il ragazzaccio destinato a rompere i vetri. Qualcuno li avrebbe poi rimessi al loro posto. Diceva in sostanza che egli non aveva programmi, ma indicazioni, lasciando in sospensione fra le coscienze e le menti, sollecitate dalle parole schiette, ogni eventuale conclusione.

Non è qui il caso di valutare il complesso spartito della sua opera di scrittore, di pubblicista o di avanguardista cristiano: ma è certo che  l'opera sua non fu senza originalità né senza suggestione. La sua stessa intelligenza cristiana chiedeva spazio, esigendo una liberà spirituale che voleva rispettata anche nell'errante, anche quando costava grondanti amarezze.

IN CHIESA
Amava perciò la «sua» Chiesa. La «sua Chiesa» non induca, in errore perché egli non credette e non  visse che per quella di Cristo, con impegno che lo distingueva dai mediocri e con una larghezza che lo separava da certe forme tradizionali. Così non voleva saperne della chiesa «bottega» o della chiesa «Circolo ricreativo» e  tanto meno della chiesa «cellula politica». Essa è solo la casa di,Dio, del prete, del povero, del lontano, senza escludere tutti coloro che avessero volontà di credere e impegno d’amare. Così, durante le terribili giornate del dopoguerra, fu l'alfiere infaticabile della pace e della riconciliazione nelle sue terre; così fu apostolo di vita sociale cristiana, quando le ore della prova e del pericolo imminevano, esponendosi alla difesa dei principi umani e cristiani; così nella parrocchia e fuori, in Italia, e oltre i suoi confini, predicò la santità della Chiesa.

Fu fermato dal male sul pulpito: mentre parlava; si direbbe da questa circostanza che il suo discorso non sembri ancora finito.

Don Primo finalmente riposa: la sua santa Messa, si è conclusa con un improvviso commiato. Dall'altare. 

Carlo Bellò

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