L'ANALISI
29 Febbraio 2020 - 07:00
Quest'anno vivremo un giorno di più, lavoreremo un giorno di più e, magro compenso, il 1956 rimarrà con noi ventiquattro ore di più: è, infatti bisestile, come lo furono il 1952 e il 1948 e un anno su quattro da due millenni a questa parte. La regola è semplice, e noi ci adeguiamo di buon grado, senza chiedere spiegazioni; eppure dobbiamo a queste ventiquattro ore in più ogni quattro anni se gli anniversari non sono soltanto simbolici, se la primavera è veramente sinonimo di vita che rinasce, se, in una parola, il calendario non è soltanto una misura molto approssimativa del tempo, come lo è stato per quattromila anni.
Durante questo lungo periodo, infatti, gli egiziani calcolarono l'anno di 365 giorni, una cifra che rappresenta già un miglioramento sensibile rispetto a quello di 360, seguito dalla maggior parte dei popoli antichi, tra cui i Caldei; tuttavia anche così non soddisfaceva affatto, poiché lo scarto tra il calendario stabilito e la data effettiva delle stagioni raggiungeva circa trenta giorni per secolo.
Pure, in mancanza di meglio, i romani lo accettarono così; ma, in mano ai sacerdoti cui venne confidata, questa comoda macchina per registrare il tempo divenne un'arma di cui si servivano i pontefici per provocare i fallimenti, e per favorire o danneggiare i questori. «L'arbitrio giungeva a tal punto», racconta Svetonio, «che l'epoca della mietitura non cadeva necessariamente in estate, né quella della vendemmia in autunno...».
Nel 45 avanti Cristo Giulio Cesare, decise di porre termine a questo stato di cose; alle ebbrezze del conquistatore succedettero le soddisfazioni dell'amministratore; ma, sferrando il suo attacco contro un calendario impreciso, egli compiva pur sempre un gesto di soldato. «I generali romani» doveva poi dire umoristicamente Voltaire, «trionfavano sempre; ma non sapevano esattamente in quale giorno celebrassero il trionfo». Fu dunque a un generale pensoso della sua gloria che dobbiamo la legge degli anni bisestili.
Per far le cose per bene, Cesare si rivolse ad un astronomo greco che abitava ad Alessandria, Sosigene, scelta particolarmente felice, dato che Egitto e Grecia si erano sempre distinti nello studio del firmamento. Sosigene stabilì il nuovo calendario fondandosi sull'ipotesi che l'anno si estenda su 365 giorni e un quarto; già un secolo prima Ipparco, il più grande astronomo dell'antichità, aveva osservato che l'anno non consiste di 365 giorni e sei ore, ma di 365 giorni, 5 ore e 55 minuti (55 minuti, comunque che per gli astronomi di oggi, sono più precisamente 49). Ma Sosigene, per semplificare le cose, preferì fare cifra tonda; senonchè, adottando come base 365 giorni e sei ore, egli causava, tra il nuovo, anno civile e quello astronomico, uno scarto di tre quarti di giorno per secolo ossia tre giorni in quattro secoli... inconveniente che, dopo quattro secoli, richiese un'ulteriore revisione.
Ma anche queste sei ore calcolate come intere, ponevano già un problema; e per risolverlo, Sosigene guardò, una volta ancora, all'Egitto che già due secoli prima aveva adottato l'aggiunta quadriennale di un giorno; il popola aveva accolto sfavorevolmente la innovazione, ma Sosigene non se ne preoccupò minimamente.
Cesare aderì: «il giorno supplementare» scrive l’astronomo Couderc «fu assegnato al mese di febbraio, che aveva solo 28 giorni, ed era considerato nefasto dai romani; ma invece di aggiungergli un giorno ogni quattro anni Cesare preferì raddoppiare il giorno 24, mantenendo al mese un numero pari di giorni; il giorno supplementare portò il nome, immeritato di sesto prima delle calende di marzo, «bisestus (ante) calendas martias»; di qui il nostro termine di bisestile.
La soluzione non era ancora definitiva e si dovette passare per Gregorio XIII, Filippo II, Enrico III, Keplero per giungere a quella tuttora utilizzata.
I pignoli diranno che nemmeno i calcoli gregoriani sono esatti; ma lo scartò annuale è solo di 0,0003 giorni e per ottenere uno scarto di tre giorni occorreranno 10.000 anni.
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