L'ANALISI
02 Novembre 2025 - 05:30
In questa fase economica, l’Italia è come la Ferrari: ha grande storia, fascino unico, creatività nei suoi uomini migliori, competenze tecniche e scientifiche e capacità di fornire soluzioni innovative. Ma, come la ‘rossa’, oggi ha un motore che fatica ad essere all’altezza dei migliori competitori. Il territorio cremonese, con le sue imprese e le sue intelligenze imprenditoriali, non fa eccezione, anche se nel complesso regge meglio della media nazionale e mostra una superiore capacità di stare in ‘gara’.
La chiamano resilienza, cioè — come da dizionario — la capacità di un individuo o di un corpo sociale di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, interne al sistema, ma soprattutto esterne. Con l’obiettivo di capire come e dove agire per tornare a scendere in pista per salire almeno sul podio, se ne è parlato venerdì all’assemblea annuale dell’Associazione Industriali di Cremona, che a CremonaFiere ha celebrato i suoi primi 80 anni con l’aspirazione di mettere benzina nel motore per i prossimi 80 e dare gas alla ripresa.
‘L’epoca dell’incertezza’ il titolo e filo conduttore delle riflessioni di alto profilo grazie anche al contributo di ospiti illustri. Così è stato, a partire dall’ampia e appassionata relazione del presidente Maurizio Ferraroni. Secondo i numeri forniti da Unioncamere poco più di un mese fa, Cremona con il suo +1,6 per cento nella produzione del trimestre aprile-giugno 2025 rispetto all’analogo periodo di un anno fa, corre addirittura più veloce della ‘locomotiva lombarda’, che pure mostra «un tessuto solido, in cui piccole migliorie bastano per dare nuovo impulso alla crescita». Ma ciò non è sufficiente per contrastare una fase di incertezza che minaccia di durare a lungo.
Il ‘nemico’ è più che altro esterno e ha molti nomi, come ha ben sottolineato Ferraroni: guerre («oggi più di cinquanta nel mondo», non solo Ucraina e Medio Oriente), dazi, costo dell’energia, nazionalismi, equilibri geopolitici saltati e istituzioni come l’Ue non più all’altezza delle grandi sfide perché rallentata da procedure che ne ‘legano’ il motore e da politiche che rischiano di portare alla deindustrializzazione. L’Italia e l’intera Europa, essendo povere di materie prime, rischiano così «un progressivo ridimensionamento sul piano geopolitico, economico e industriale», ha sottolineato il presidente.
E con lui i protagonisti della tavola rotonda moderata dal giornalista Nicola Porro: Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e de Il Sole 24 Ore; Paolo Gentiloni, in passato premier italiano ed eurocommissario per l’Economia, e Giuseppe Pasini, presidente di Confindustria Lombardia. Sulla stessa lunghezza d’onda nell’intervista finale Tommaso Foti, ministro per gli Affari europei, il Sud, la Coesione territoriale e il PNRR.
Parafrasando Karl Marx, c’è uno spettro che si aggira per l’Europa, ma non è il comunismo, ormai messo in soffitta dalla Storia. Questa minaccia è la deindustrializzazione, camuffata da sostenibilità ambientale e sostenuta con normative che ingabbiano le imprese e da costi dell’energia che ne minano la competitività. Il risultato è che l’interesse va progressivamente spostandosi dalla produzione alla finanza: si guadagnano cifre astronomiche in brevissimo tempo e con molto meno impegno.
È tanto più semplice spostare capitali da un fondo a un altro piuttosto che affrontare i rischi d’impresa e di gestione di un’industria. E oggi i grandi fondi di investimento, soprattutto americani, tendono al controllo delle economie nazionali. Come facilmente intuibile, è un castello di carta: senza un tessuto industriale sano, anche la finanza ha orizzonti di utilità a termine.
L’altra faccia della medaglia della deindustrializzazione è la delocalizzazione, tanto auspicata pro domo sua dal presidente americano Donald Trump e denunciata da anni in tutte le analisi di scenario, a partire da quella dell’ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale, significativamente intitolata «L’ora della verità».
L’emergenza assoluta per le imprese, così come per le famiglie, è il costo dell’energia: il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo ha stimato che nel 2025 le imprese italiane stanno affrontando un rincaro del 19,2% dei costi energetici, con aumenti del 210,5% per il gas e del 186,8% per l’elettricità rispetto al 2020. Inoltre, è stato sottolineato all’assemblea degli industriali, si è passati dalla dipendenza energetica dalla Russia a quella dagli Stati Uniti.
Guardando in casa nostra, ha sottolineato Pasini puntando il dito contro le compagnie energetiche, il comparto «è diventato una rendita di qualcuno alle spalle di tanti». Inaccettabile. In questa situazione è davvero ora di accantonare le riserve ideologiche sull’unico fattore che può ribaltare lo scenario: il nucleare. I sopravvissuti della tribù del no a priori dovrebbero avere l’onestà intellettuale di guardarsi intorno senza pregiudizi: dalla Francia alla Svizzera e perfino alla Slovenia, lungo i patrii confini è un pullulare di centrali nucleari, che producono e vendono anche a noi la loro energia.
L’Italia, all’epoca del primo referendum, era all’avanguardia mondiale, ma abbiamo regalato al mondo quell’indispensabile patrimonio di conoscenza tecnica. Tanto vale provare a recuperare il tempo perso: basta volerlo, con più pragmatismo e meno ideologia. In questo scenario complessivo e senza intervenire con decisione, il risultato può essere uno solo: smettere progressivamente di essere un continente di produttori di beni e servizi e diventare un grande mercato per chi non rinuncia a quelle vocazioni.
Davvero pensiamo che sia auspicabile un futuro in cui mangeremo americano, viaggeremo su auto cinesi, vestiremo abiti confezionati in Paesi in cui si sfrutta la forza lavoro? La relazione di Ferraroni e i conseguenti interventi hanno chiarito che c’è ancora un mondo, quello delle imprese, che non accetta di ridurre l’Italia al rango di “suddito” di produzioni altrui.
Un universo in cui, come ha sottolineato efficacemente il leader degli industriali cremonesi, «la vera sfida non è prevedere il futuro ma renderlo possibile». Perché, citando Albert Einstein, in questa epoca di incertezza è necessario credere che «nel mezzo delle difficoltà nascono le opportunità». Bisogna saperle individuare e cogliere. E questo impegno a Cremona c’è. L’assemblea, tornando alla metafora motoristica, è stata il necessario pit-stop per ripartire in quarta.
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