L'ANALISI
Le celebrazioni e il ricordo dopo la battaglia di Vittorio Veneto
03 Novembre 2015 - 16:10
4 novembre, celebrazioni per la fine della Prima Guerra mondiale e festa delle Forze Armate, nella ricorrenza della battaglia del 1918 di Vittorio Veneto che si concluse con la vittoria dell’esercito italiano su quelli degli Imperi Centrali. Protagonisti il re Vittorio Emanuele III, il re soldato, Luigi Cadorna, il sanguinario (a dire il vero così veniva chiamato il duca Amedeo d’Aosta) Armando Diaz, Duca della Vittoria, Paolo Thaon de Revel, Duca del Mare. E milioni di fanti, marinai, cavalieri, artiglieri, che tra fango e gas asfissianti sono morti in giovanissima età, molti di loro neppure 18enni.
Una data simbolo per il nostro Paese, una data che sancisce veramente l’Unità, almeno geografica dell’Italia come non si era vista dai tempi di Augusto. Una ricorrenza che con gli anni ha assunto toni e contenuti diversi, fino a diventare quasi una data pacifista: perché non accada mai più, sembrerebbe la filosofia che caratterizza i cortei, le messe, l’alzabandiera, le deposizioni delle corone d’alloro. Bellissima e significativa la cerimonia dei mesi scorsi a Pizzighettone dove storici e Volontari Mura hanno dato un nome ai soldati austroungarici seppelliti in riva all’Adda: Ieri nemici, oggi fratelli, il titolo della manifestazione.
Giusto dare nuove connotazioni (basti pensare che numerose associazioni di combattenti e reduci della provincia hanno aggiunto alla denominazione ‘costruttori di pace’), ma è sempre bene non dimenticare quello che successe, i sacrifici, le morti, le mutilazioni che milioni di giovani, italiani e non patirono in quella che, è sempre bene ricordarlo, il pontefice Benedetto XV definì ‘Inutile strage’ (ma anche in questi casi le parole di personaggi così carismatici vengono usate a ‘seconda’).
La Prima Guerra mondiale fu vinta dall’Italia, qualcuno dice con un ‘voltafaccia’, altri invece con un calcolo politico e pratico: la nazione germanica era stata sempre il nostro nemico, fin dai tempi dei barbari. Le ‘fertili pianure’ italiane erano sempre state un mito.
Vittoria, dunque ma quanti sacrifici, quanti morti, quante polemiche. Polemiche che continuarono anche dopo, che divisero ancora il Paese, politicamente almeno, e che portò alla grande tragedia del fascismo e della seconda guerra mondiale. Una relazione diretta, che ormai nessuno storico mette in discussione.
Ma le radiose giornate di maggio che si concludono quattro anni dopo a Vittorio Veneto non si possono cancellare, a 100 anni dalla Grande Guerra dalla memoria collettiva di un popolo. e a questa memoria Cremona ebbe modo di partecipare attivamente.
Per quasi un anno anche la città si divise tra interventisti e neutralisti.
Gli schieramenti furono trasversali: al primo aderirono personalità della sinistra moderata, ai secondi anche esponenti del mondo liberale, che vedevano nella guerra una prova troppo impegnativa per il nostro paese. Ma avevano anche paura delle conseguenze, che la guerra potesse mettere in discussione, una volta finita, quell’ordine costituito. Il pericolo, naturalmente, erano i ‘bolscevichi sovversivi’, come andarono i fatti, invece, è noto: fu l’estrema destra, il fascismo, a sovvertire la società italiana.
La provincia nel censimento del 1911 contava quasi 350mila abitanti. I maschi erano poco meno di 173mila, e di questi ben 77mila erano iscritti nelle liste di leva. Alla fine della guerra nella provincia si contarono 6381 caduti, e l’anno nero per i fanti cremonesi fu poprio l’ultimo anno, il 1918, sul fronte muoiono quasi 2000 soldati. A questi occorre aggiungere i feriti, i mutilati, gli ammalati cronici, coloro che dal punto di vista psicologico non si ripresero mai più.
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