L'ANALISI
01 Ottobre 2015 - 11:00
Vedo che alle frequenti lettere al giornale esaltanti il regime fascista se ne è aggiunta una di carattere ‘negazionista’. In Germania qualcuno nega lo sterminio degli ebrei, nel nostro piccolo a Cremona c’è chi le scrive che «…a Villa Merli nessuno è stato seviziato» e via su questo tono. Mi limito alle poche frasi concesse per una lettera al giornale. Nei giorni subito dopo la Liberazione, in piazza Roma furono esposti al pubblico, in una vetrina, gli attrezzi rinvenuti a Villa Merli subito dopo la fuga degli agenti dell’UPI. Oggetti tipo strisce di cuoio con nodi su un corto manico, randello con punte di chiodo sporgenti, tenagliette…
Nel processo si parlò dell’uso dello scudiscio, di una corda per strozzamenti parziali ecc. In effetti nell’aprile del 1946 si tenne il processo sui fatti di Villa Merli, con 36 imputati e circa 200 testimoni. Fronte Democratico (quotidiano del CLN che aveva alla testa persone come Emilio Zanoni e Ottorino Rizzi) il 19 aprile diede conto così della seduta conclusiva: «…Puerari e D’Ippolito condannati a morte, 370 anni di reclusione distribuiti ad altri 22 imputati, 4 donne assolte». Le condanne a morte non vennero eseguite ma commutate in carcere, il 13 agosto 1947 ‘La voce del Po’ annunciò che Puerari era fuggito mentre lo trasferivano a Portolongone.
Per altri sopravvenne l’amnistia, altri ancora furono condonati in Cassazione per estinzione del reato… Insomma, si sa quanto la democrazia fu larga di maniche. Oltre a Luigi Ruggeri ‘Carmen’, quelli di Villa Merli torturarono e poi fucilarono il diciannovenne partigiano Renato Campi, il 16.2.1945 nel poligono di tiro cittadino. La sorella testimoniò al processo sull’ultimo colloquio con Renato a Villa Merli, prima della fucilazione. Egli le disse che «preferiva la morte» a quello che gli stavano facendo. Testimoniò anche che sul cadavere dopo la fucilazione furono trovate le cicatrici delle sevizie.
Del resto nei resoconti del processo leggiamo che alcuni degli imputati confermarono le malefatte incolpandone un altro ‘collega’ o il loro capo Milanesi, già morto.
Ricordo infine che Piero Borelli non era un ‘doppiogiochista’, come ignobilmente si scrive nella lettera al giornale, ma fu un partigiano che, con altissimo coraggio e rischio personale, venne ‘infiltrato’ nella questura al servizio della Resistenza.
Giuseppe Azzoni
(Direttivo ANPI di Cremona)
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