L'ANALISI
30 Settembre 2025 - 11:31
C’è un tempo in cui la luce di Milano si fa verticale e spietata. In quell’istante le strade sembrano corridoi, le piazze camere d’eco, i volti comparse di un rito antico. Il romanzo "Mortui non Mordent" di Milena Moriconi accende lì il proprio fiammifero: è un noir psicologico che si muove a passo di metronomo, con il respiro corto di chi prepara una messa in scena e la calma feroce di chi l’ha già provata cento volte nella mente. La città diventa un organismo che tutto osserva e registra, mentre campate del Duomo diventano così le nervature di un corpo che trattiene e convoglia la colpa. Nel giro di poche settimane, il lettore attraversa una progressione di segni, a formare un progetto che cerca la propria compiutezza. La tensione si alza per gradi, come un organo che accorda le canne, e il suono che ne risulta non concede distrazioni. Il titolo di “Mortui non mordent. I morti non mordono” pubblicato da Europa Edizioni , introduce un’idea che agisce come monito: non è il defunto a tornare e dare il tormento, ciò a cui bisogna fare attenzione è l'ombra dei vivi. L’autrice lavora su questa soglia e la percorre con una scrittura che alterna precisione e trasalimenti, dettagli di ambiente e sondaggi interiori. Moriconi promette un noir che non cerca l’effetto di superficie, ma che sceglie un lessico immortale, fatto di pietra, vetro e tempo. La vicenda si gioca in un arco serrato che comprende un paio di settimane, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre . L’andatura non concede dispersioni e preferisce la cadenza breve, i passaggi netti, l’impressione di una rotta inevitabile. Nel mezzo, flashback che riaprono varchi, raccontano infanzie, apprendistati, ferite che hanno assunto la forma della città. Il lettore entra ed esce dai giorni come da stanze comunicanti e trova nella memoria una controparte del presente. L’effetto è quello di un montaggio che accumula senso senza frastuono, con il risultato di una pressione costante che non perde mai contatto con il qui e ora della trama. Il protagonista, Gianni Colombo , non è un eroe e non è un mostro. È un fotografo che ha imparato a osservare, a cogliere l’essenza delle cose e delle persone, ma che allo stesso tempo si lascia facilmente andare: anche quando il lavoro scarseggia, non rinuncia al suo tenore di vita sopra le righe e alla sua proverbiale sfrontatezza . Il suo modo di stare nello spazio dice più delle sue parole: riconosce le linee della città come si riconoscono le pieghe del palmo, asseconda le geometrie dei portici, assorbe la luce delle vetrine, valuta le traiettorie in anticipo. In questa discrezione prende forma un progetto che non nasce dalla furia istantanea, prende forza nella disciplina. Il senso di giustizia che lo abita non coincide con l’idea astratta del diritto, bensì con un calcolo personale. Gianni pensa il mondo come un sistema che ha subito una deviazione e che attende una correzione di rotta. L’esercizio di questa correzione si costruisce per passi: routine, sopralluoghi, inventario degli orari, prove, ipotesi e controipotesi. La mente monta la scena in anticipo, la ripete, la ottimizza. Nella progettazione delle sue azioni si avverte un’ intelligenza fredda e una componente rituale che richiama la liturgia. La narrazione rende questo itinerario con una naturalezza quasi inquietante e consegna al lettore la certezza di assistere a una necessità forte e maturata con lucidità. Il senso del sacro che pervade il libro passa dalla materia. Milano esprime una religiosità pietrificata nei gargoyle, nell’oro remoto della Madonnina, nelle cappelle che paiono teche del tempo. Gianni non si inginocchia e non sfida l’altare. Attraversa la soglia come si attraversa un passaggio di stato tra due sostanze. La cattedrale diventa un crocevia in cui le parole di catechismo tacciono e parla la forma: verticalità che chiama in alto, navate che insegnano la direzione, ombre che ricordano il limite. La spiritualità che ne deriva è una coscienza dello spazio e della misura, un metro più antico del metro personale del protagonista, che con quello deve fare i conti. La città stessa prende il lettore per mano e lo porta dove occorre: lungo la metropolitana e dentro le gallerie che trattengono l’odore degli anni, sui marciapiedi dove la notte non cancella la frenesia del giorno e il mattino non assolve i segreti nascosti dal buio. In questa partitura Gianni affina il suo piano e la città, semmai, decide i tempi del respiro . Numerosi personaggi si muovono in un sistema di orbite. Non esistono figure ornamentali, ogni incontro ha funzione e densità. Le relazioni sono spesso asimmetriche, mai del tutto reciprocate, e questa asimmetria alimenta la fabbrica interiore di Gianni. L’autrice costruisce così un ambiente umano che non interrompe la marcia della trama e intanto la nutre, come fanno le quinte nel teatro: sostengono e dirigono lo sguardo. La tensione cresce secondo una legge di compressione. L’aria tra una pagina e l’altra diminuisce e il lettore entra nel cranio del protagonista con una naturalezza spiazzante. L’effetto è quello che la grande letteratura del male conosce da sempre: l’ empatia scomoda che Nabokov rende possibile con l’incantatore della parola, la seduzione efficace che Highsmith affida alla competenza dell’intelligenza pratica, il rovello morale che Dostoevskij incunea tra idea e azione. Moriconi applica una grammatica dell’avvicinamento: toglie l’eccesso, evita l’alibi esplicativo, lascia che la logica efferata del piano si mostri fino a sembrare ragionevole. Il lettore si scopre a comprendere, poi a giustificare, infine a temere quella stessa giustificazione. Non si apre una simpatia, bensì un senso di responsabilità . Essere dentro la mente che prepara l’efferatezza comporta una quota di complicità di sguardo. La narrativa, qui, mette alla prova la nostra etica di lettori. Lo stile tiene insieme due spinte: il cronachismo asciutto del presente operativo e un lirismo urbano controllato che sceglie parole esatte. La sintassi accompagna la strategia del protagonista con un equilibrio tra gesto e pensiero , dando forma ai paesaggi urbani e alle emozioni attraverso descrizioni vivide e taglienti. L’attenzione ai luoghi vale come atlante mentale che traduce l’esterno in impianto logico. I flashback entrano poi con un taglio fotografico, privi di nebbia nostalgica, e assicurano alla motivazione il suo corpo tangibile. Il messaggio del libro si deposita per stratificazione . La giustizia privata promette una riparazione e consegna un’alterazione permanente, le cui conseguenze non sempre sono quelle che ci aspetteremmo. Il male non si veste di teatralità gratuita, assume la forma di una contabilità che credevamo virtù. Il lettore esce con una domanda che tocca la relazione tra legge interiore e legge condivisa, tra ferita personale e paesaggio comune. La consolazione non arriva e la sconfitta non trionfa, resta la misura del danno e della lucidità. Resta una domanda, alla fine del libro, che non ammette scorciatoie: a cosa siamo disposti pur di ottenere successo? Fin dove possiamo arrivare senza perdere il nome delle cose? Quanto si spinge la nostra coscienza quando il progetto diventa destino e il respiro detta il tempo dell’azione? E, soprattutto, esiste davvero un confine netto tra bene e male , oppure quel margine scorre come sabbia tra le dita, modellato dai nostri desideri di riparazione e dalla nostra fame di riconoscimento? La forza del romanzo sta nell’obbligarci a tenere lo sguardo su quel margine . Ogni pagina chiede una presa di responsabilità, ogni decisione imprime una firma invisibile sul paesaggio che abitiamo. Il lettore esce con un inventario di domande e con una sola certezza: la verità prende la forma del prezzo che decidiamo di pagare. E quel prezzo, una volta pronunciato, ci somiglia più di quanto vorremmo.
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