L'ANALISI
16 Settembre 2025 - 05:30
Con la vittoria quasi annunciata di Jim Jarmusch e del suo piccolo, intenso Father Mother Sister Brother, sono calati i riflettori sulla 82° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia che anche quest’anno ha occupato insistentemente le cronache.
Quasi una Sanremo del cinema – ci si passi il paragone –, con la differenza che mentre la kermesse canora in salsa nostrana dà uno spaccato sui cambiamenti dei gusti musicali tra le generazioni, Venezia da quasi un secolo (1932 è l’anno di nascita) offre una panoramica sul cinema in senso lato, sui suoi linguaggi e sul suo stato di salute complessivo, quasi un’olimpiade del cinema mondiale.
Una mostra, e non un semplice festival, come ha ribadito in più occasioni il presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco. Sui grandi (grandissimi) schermi sono sfilati 91 lungometraggi, 25 corti, quattro serie tv, 19 classici restaurati, mentre al Lazzaretto sono state presentate 69 opere di realtà virtuale: un ricchissimo parterre di testi, immagini, generi e formati che danno conto della sorprendente espansione non solo della mostra, ma di ciò che il cinema, nelle sue differenti articolazioni, rappresenta oggi.
Un’abbondanza (sovrabbondanza?) che si evince anche dal numero delle sezioni della manifestazione: oltre al concorso vero e proprio, Orizzonti, Venezia Spotlight (quest’ultima una novità che prevede il premio del pubblico), Biennale College Cinema, Venezia Classici, Venice Immersive, a cui si aggiungono quelle promosse dalle Giornate degli Autori e dalla Settimana internazionale della Critica, e dal crescente numero di premi che si affiancano a quelli ufficiali.
Occorre dare atto di questa crescita ad Alberto Barbera, garbato e inossidabile menneur de jeu, la cui guida solida e sicura ha sempre privilegiato gli aspetti innovativi, come Venice Immersive al Lazzaretto Vecchio, destinata ad opere di realtà virtuale, o l’alleanza con Netflix – esclusa drasticamente dal festival di Cannes – o ancora la fitta mole di eventi collaterali, masterclass, incontri finalizzati alla vendita di film e al sostegno alla produzione.
Ma al successo della mostra concorre anche il glamour che, da sempre, si lega alla presenza di attori e registi. Sul red carpet sfilano i divi secondo rituali che già individuava Edgar Morin quasi settant’anni fa nel suo aureo libro Les star: vero e proprio spettacolo nello spettacolo, si concedono all’applauso e agli autografi dei fan esibendo gli abiti delle più importanti maison. E a loro si uniscono i beniamini dell’odierna celebrity culture che dal ristretto territorio del cinema abbraccia i mondi dello sport, della musica, dei media.
Questo mix straordinario di mondanità, abbondanza e cinefilia spiega il crescente successo di pubblico: oltre centomila biglietti venduti, a cui si aggiungono 14.000 accreditati – di cui 2.500 universitari – con una crescita stimata del 9%, mentre le pagine social della mostra hanno registrato 45 milioni di interazioni. C’è però una domanda che soggiace a questa ininterrotta catena di successi: la Mostra del Cinema di Venezia fa bene al cinema, inteso come industria, e in particolare al cinema italiano? Oppure è una magnifica kermesse che esaurisce in se stessa il suo potenziale, una festa che, quando finisce, lascia solo un abbaglio nel fondo degli occhi?
I dati raccolti da Cintel sul consumo cinematografico del 2024 – altro anno record della mostra di Venezia – dicono che rispetto all’anno precedente (2023) le presenze hanno registrato un calo modesto (-1,3%, con quasi 70 milioni di biglietti venduti), mentre per i primi cinque mesi del 2025 si segnalano timidi cenni di ripresa (+ 8,8% sull’anno precedente). Anche se gli incassi sono trainati da film di cassetta – come Inside Out 2, Oceania 2, Cattivissimo Me 4 e Deadpool & Wolverine – ciò che determina l’affluenza degli spettatori è soprattutto la qualità del prodotto, ossia dei film.
È sotto questo profilo che Venezia – insieme agli altri grandi festival mondiali – può giocare un ruolo cruciale come volano per accrescere la notorietà dei film, e per favorire la visione in sala. Penso per esempio al successo di Vermiglio (di Maura Delpero), Leone d’argento a Venezia 2024, che ha ottenuto sette premi ai David di Donatello (ossia l’oscar italiano) ed è stato candidato ai Golden Globe 2025.
Ma molto rimane da fare per spingere il gusto degli spettatori oltre i ristretti canali del glamour o della notorietà indirizzandolo verso una più ampia cultura cinematografica, quando non vera e propria cinefilia: l’eco di Venezia può spingersi ben oltre il look delle star e andare a scoprire talenti nascosti, come l’ottima Fanni Wrochna nel ruolo di Désirée al fianco di Valeria Bruni Tedeschi in Duse di Pietro Marcello, o la più conosciuta Barbara Ronchi, già protagonista di Rapito di Marco Bellocchio ed ora enigmatica e dolente interprete di Elisa di Leonardo Di Costanzo, uscito nelle sale all’indomani della mostra.
Per non parlare della ricchezza dei linguaggi che esprimono il presente della storia ma anche del cinema: lo si è visto in particolare in The Voice of Hind Rajab della regista Kaouther Ben Hania, Leone d’argento, non solo per il drammatico realismo della pellicola che utilizza vere registrazioni audio di una bambina rimasta intrappolata in un’auto con i parenti massacrati mentre chiede soccorso, ma anche perché torna a dare valore alla voce (e all’ascolto) come medium potente, spesso obliterato dal predominio del visivo nel cinema contemporaneo; o ancora nel documentario di Gianfranco Rosi Sotto le nuvole che restituisce fascino e forza estetica a un genere sottovalutato come il documentario riportando al tempo stesso al centro un territorio ricco e insieme problematico come quello dei Campi Flegrei.
Insomma: la potenzialità di un grande festival come quello di Venezia è quella di riscoprire l’importanza del cinema come evento da fruire collettivamente, come cronaca del presente e sul presente, come grande racconto che può raggiungere vasti pubblici perché capace di rielaborare problemi attuali sotto forma di narrazioni condivise, e con linguaggi attuali. In una parola, come autentico patrimonio culturale, posto che si torni a dare al termine cultura l’ampio e nobile significato che merita.
Un patrimonio di cui – piace qui ricordarlo – anche Cremona è parte. In un talk presentato all’Italian Pavillon al quale è intervenuto il Magnifico Rettore dell’Università di Pavia, Francesco Svelto, si è parlato di formazione ed educazione al cinema. Ed è stata presentata da chi scrive una ricerca sulle sale cinematografiche storiche italiane attraverso l’esempio, tra gli altri, del Cinema Teatro Filo. Lì il cinema ha raggiunto per la prima volta Cremona, nel settembre del 1896, ed è lì, al Filo come nelle sale cinematografiche italiane, dove ci auguriamo che il cinema continui a trovare casa, nel presente e nel prossimo futuro, rinfocolato dal calore della festa veneziana.
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