CALCIO
09 Maggio 2021 - 06:44
Marco Bencivenga, direttore de La Provincia
CREMONA - A Milano il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha già fatto sapere che - al netto della volontà popolare - a fine mandato non si ricandiderà. E «no, grazie» ha risposto in settimana anche l’ex sindaco Gabriele Albertini, al quale il centrodestra aveva chiesto di sfidare l’attuale primo cittadino Giuseppe Sala alle Comunali del prossimo autunno. Due indisponibilità così fragorose non possono passare inosservate nella regione che rappresenta la locomotiva economica (e non solo) dell’intero Paese. Ma non va meglio a Roma, dove a fronte di due discusse autocandidature (la sindaca uscente Virginia Raggi e l’ex ministro Carlo Calenda) a pochi mesi dalle elezioni il principale partito del centrosinistra non ha ancora indicato un nome e il candidato più gradito al centrodestra, il super esperto di emergenze Guido Bertolaso, ha respinto con decisione ogni avances: «Si cerchino qualcun altro...», ha mandato a dire senza troppi giri di parole.
A 4-5 mesi dalle Amministrative che si svolgeranno in oltre mille Comuni italiani (la data certa ancora non c’è, causa pandemia, ma il Governo ha aperto una finestra «nel periodo compreso fra il 15 settembre e il 15 ottobre») una domanda sorge spontanea: perché è così difficile trovare aspiranti sindaci, se non addirittura aspiranti governatori? Al di là delle questioni politiche (nessun partito vince da solo e le coalizioni fanno sempre più fatica a individuare una candidatura condivisa) la risposta non è poi così misteriosa: fra i tanti possibili incarichi pubblici, il mestiere di sindaco è ormai diventato il meno allettante in assoluto. Perché è quello che richiede il massimo impegno e il massimo livello di responsabilità e offre in cambio il minore «ritorno» economico. Tutto il contrario rispetto a un seggio in Parlamento (dove pochissimi decidono per tutti e la stragrande maggioranza dei «peones» ha più privilegi che incombenze) e, ancor più, nel confronto con i consiglieri regionali (oggi la carica elettiva meglio retribuita in proporzione alla fatica profusa e all’utilità specifica).
È l’effetto perverso di quella lotta alla «casta» che, pur condivisibile sulla carta, nella realtà ha finito per penalizzare gli unici politici che lavorano davvero per il bene della comunità che rappresentano, quelli che ogni giorno operano sul campo, ci mettono la faccia, risolvono problemi, ne rispondono direttamente agli elettori, anziché trascorrere le giornate fra stucchi e velluti di
Camera e Senato o viaggiare su quelle auto blu che, magari, avevano promesso di abolire, se eletti. Il ruolo di sindaco è oggi il più ingrato e peggio retribuito di tutti: a parità di impegno e di responsabilità, un manager del settore privato può guadagnare anche dieci volte tanto. Per questo un professionista di alto livello - che potrebbe rivelarsi un ottimo gestore della cosa pubblica - ben si guarda dal diventare primo cittadino del Comune in cui vive o lavora. Il che rappresenta un bel problema per tante amministrazioni pubbliche, si tratti di governare grandi metropoli (fra i Comuni italiani chiamati al voto in autunno ci sono i quattro più popolosi del Paese: Roma, Milano, Napoli e Torino, per un totale di oltre otto milioni di residenti) o - ancor più - di amministrare i piccoli centri di provincia (nel Cremonese toccherà ad Azzanello, Campagnola Cremasca, Cremosano, Izano, Palazzo Pignano, Pianengo, Pieve San Giacomo, Pizzighettone, Rivolta d’Adda, San Giovanni in Croce, San Martino del lago, Sesto e Uniti e Spino d’Adda, tredici Comuni che, presi tutti insieme, non raggiungono i 43 mila abitanti).
È un problema di democrazia e di rappresentanza, per non tornare ai tempi in cui solo i nobili e l’alta borghesia potevano «permettersi» di fare politica e per non dover neppure inseguire la moderna ipocrisia dell’«uno vale uno», teoria che ha
dimostrato tutti i suoi limiti proiettando in ruoli di rilievo cittadini di buona volontà, certo, ma senza alcuna preparazione né competenza. Ancor meno praticabile si è dimostrata l’utopia della «democrazia diretta», come ben rappresenta la parabola di Rousseau, la piattaforma telematica che per qualche tempo ha illuso i suoi iscritti di poter davvero determinare le scelte e i programmi del Movimento 5 Stelle, se non addirittura dei Governi di cui ha fatto (e fa) parte, salvo diventare oggetto di una causa legale fra gli eredi del creatore e la forza politica che l’aveva eletta ad assemblea permanente (e senza appello). La sfida, come sempre, è trovare la giusta misura: da un lato eliminare privilegi, vitalizi e benefit assurdi oggi riconosciuti a chi svolge un compito oggettivamente sovrastimato, dall’altro riconoscere il giusto compenso a chi si dedica a tempo pieno alla propria comunità. Magari con l’aggiunta di un premio per chi raggiunge determinati traguardi in termini di efficienza, gestione virtuosa delle risorse disponibili, qualità e quantità dei servizi garantiti ai cittadini. Fra i tanti problemi e le tante urgenze di cui deve occuparsi, chissà se SuperMario Draghi riuscirà a compiere un miracolo anche in questa direzione. Sarebbe un piccolo passo avanti per la pubblica amministrazione e un grande passo avanti per la collettività. Poi, magari, l’esperimento si potrebbe estendere a tante altre categorie: volendo, a pensarci ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta.
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