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IL CONVEGNO. LE TRAPPOLE DELLA RETE

Adolescenti nella rete dei bulli: «Denunciateli»

Successo al Teatro Filo per la prima edizione di #viteconnesse. Focus su bullismo, cyberbullismo, revenge porn, adescamenti da parte di adulti criminali che pescano le «prede» sotto falsi profili

Francesca Morandi

Email:

fmorandi@laprovinciacr.it

04 Ottobre 2023 - 05:30

Giovani nella rete dei bulli: «Denunciateli»

CREMONA - Nascosta nell’ombra, Sofia racconta il suo dramma. Sofia è una adolescente con la testa a posto. A scuola va bene, va d’accordo con i compagni di classe, ha molti amici. Un giorno, a una festa conosce un giovane. I due si scambiano il numero di smartphone, cominciano a chattare, entrano in confidenza. Poi lui le chiede di inviarle fotografie di lei nuda. Sofia dice ‘no’. Poi «non so come, non so come», lo fa. Tre scatti finiscono in Rete. È una pioggia di «like» e di offese. «Mi sono sentita sporca, volevo morire. Ero diventata la puttanella della scuola». Ci mette un po’, finché un giorno Sofia scrive alla polizia postale e denuncia di essere vittima di sexting.

Con il potente cortometraggio di 13 minuti proiettato al Teatro Filo, si apre alle 9.30 di ieri, il convegno ideato e organizzato, in veste di delegato del Sul.Pl (Sindacato unitario lavoratori polizia locale), da Santo Canale sulle trappole in Rete (moderatore il giornalista Giovanni Palisto).

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Un focus, a 360 gradi (dieci relatori si alternano sul palco), sulle trappole della Rete - e sulle loro conseguenze -: bullismo cyberbullismo, revenge porn, adescamenti da parte di adulti criminali che pescano le «prede» sotto falsi profili.

Reati che, per professione, tratta Alberto Casarotti, sostituto commissario della polizia Postale, coordinatore responsabile della sezione operativa per la sicurezza cibernetica. Un investigatore, Casarotti, abituato ad andare nelle scuole per mettere in guardia gli adolescenti, e dallo scorso anno addirittura i bambini di quinta elementare, «perché l’età si è abbassata».

Ci sono prede adescate in Rete di 9 anni appena. Lo fa anche al Filo davanti alla platea di studentesse e studenti degli istituti Stanga, Torriani, Ghisleri, Einaudi e dei licei Manin e Anguissola. Il convegno è rivolto a loro.

Dal palco, Casarotti fa suonare molti campanelli di allarme. Spiega i pericoli della Rete, come non finirci dentro. Incoraggia i ragazzi a denunciare. Denunciare è il messaggio che vuole far passare lo stesso Canale e molti dei relatori intervenuti dopo Casarotti e Alberto Battista, lui vice commissario della Polizia locale di Bergamo, che porta l’esperienza di quanto accade in quella città. Mentre su quanto accade a Milano, i riflettori li accende Marco Luciani, commissario capo della Polizia locale del capoluogo. Sul sexting, Casarotti avverte: «Non è comprensibile, ma ci può state la richiesta di una foto, una volta, se dico no è no e tu devi rispettare quel no. Se io insisto, faccio leva sul sentimento, io non mi sto comportando da fidanzato. Provate a dirglielo: ‘Se mi ami, tu queste cose non me le devi più chiedere. Se lui ti ama, non te le chiede più, ma se te le chiede ancora, una domanda io me la farei».  

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Mica facile, denunciare. Lo sa Lara Ghirardi, sostituto procuratore presso la Procura per i minorenni di Brescia. Racconta la sua esperienza di pm. «I ragazzi non denunciano spesso per paura o per vergogna». Spiega che «quando il reato è procedibile d’ufficio, noi sguinzagliamo la polizia giudiziaria e i servizi sociali per raccogliere elementi a carico, ma anche a discolpa. Tanti giovani vittime di reato non vogliono fare denuncia. Ci dicono di avere paura che le situazioni possano peggiorare. ‘Me la fa pagare, me lo ha già anche detto’. Sono minacce. Pensiamo alle vittime di sexting che non denunciano per vergogna. Anche i genitori spesso non vogliono denunciare e le segnalazioni dalle scuole sono pochissime».

Non parla di «bullo», ma di «bulli», il pm. Perché «di solito c’è un capetto, poi ci sono i gregari». Gregari che «presi uno per uno, non riescono neanche a comprare il gelato all’oratorio». Ma in gruppo prendono forza, «diventano bulli magari per dimostrare alle ragazzine di essere fascinosi».

Il pm Ghirardi spiega come funziona la macchina della giustizia: «Noi aiutiamo sia la vittima sia l’autore di reato. C’è, ovviamente, un occhio di riguardo nei confronti della vittima («Pensate al dolore, al disagio e alla sofferenza inferti anche alle famiglie delle vittime), ma un occhio di riguardo lo si ha anche verso il colpevole. «Vi voglio tranquillizzare e rassicurare: l’intervento della giustizia minorile è volto non soltanto a punire gli autori di determinati reati, ma a rieducarli, a favorire un loro cambiamento. Quella minorile è una giustizia rieducativa».

Il pm tiene a sottolineare che «prima del processo, noi mettiamo di fronte gli autori di reato alle loro vittime. E se la vittima non se la sente, non è obbligata, si possono prendere altre vittime di analoghi reati. Quando sono lì e parlano, si trovano davanti alla loro vittima, capiscono che cosa hanno ingenerato nella vittima e nella sua famiglia: dolore, disagio e sofferenza. Pensate a Sofia e alla sua famiglia. Questo aiuta il reo a fare un percorso. Lo aiuta a lavorare su stesso, a capire perché lo ha fatto, a capire che erano cose sbagliate.

Il pm dice di «imbestialirsi» quando davanti a lei che lo interroga, il minore autore di reato le dice: «Massì, è una cavolata, una ragazzata». Non è una ‘cavolata’ portar via anche 1 euro a un ragazzo. «È una rapina». Non è una ‘cavolata’ «quando alla vittima dici: ‘Adesso vai a casa tua e portami anche 5-10 euro». Questa è «rapina ed estorsione». E non è una ‘cavolata’ quando «nel gruppo, qualcuno palpeggia una ragazza». Si chiama «violenza sessuale». «Il bullismo - prosegue il pm — racchiude in sé reati anche molto gravi che prevedono l’applicazione di misure cautelari». Nei casi più gravi, «il carcere, se hai commesso una serie di rapine, di estorsioni».

Altra misura, la comunità, oppure gli arresti domiciliari, infine le prescrizioni: «Non si esce prima delle sei del mattino e si deve rientrare alle 22. Anche questa è una limitazione della libertà personale. Il bullo che davanti al giudice, al pm e alla polizia giudiziaria, solo e senza maschera cambia faccia e si trasforma in agnellino».

Ma «c’è un’altra cosa che mi fa gelare il sangue», prosegue il pm. Il sangue le si gela quando nel caso in cui il reato sia commesso da un gruppo, si sente dire: ‘No no, ha fatto tutto tizio, io ero lì, ma non ho fatto niente’. Insomma, io non c’ero e se c’ero dormivo: non funziona così. Chi assiste a una rapina, a un palpeggiamento (violenza sessuale), a un bullismo, tutti quelli che stanno lì, sghignazzano, filmano e poi mettono i like, sono concorrenti nel reato».

Torna alla paura e al timore di denunciare, il pm Ghirardi. «C’è chi ha paura, perché ‘se lo denuncio faccio la figura del debole’ e tu continui a dare agli aguzzini i soldi, li porti via da casa, porti via da casa oggetti di valore». L’importanza di denunciare «vale anche per i testimoni. Per meglio delineare i fatti, io devo sentire i compagni di classe, gli insegnanti, i genitori, gli amici. Chi ha raccolto confidenze da una vittima, ha il dovere di parlare». 

L'INTERVENTO DI DON BURGIO

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Don Claudio Burgio

È il prete che cura i cuori dei bulli. Lui li incontra in carcere, il Beccaria di Milano, o nella comunità che gestisce a Vimodrone, nell’hinterland milanese. La comunità si chiama Kayròs. All’ingresso c’è una scritta: «Non esistono ragazzi cattivi». È il motto di don Claudio Burgio, perché «i bulli sono altrettanto vittime della loro situazione. Sono vittime di bullismo a loro volta, magari durante l’infanzia, alle scuole medie. Ci sono ragazzi che arrivano ad atti di bullismo, anche, a volte, di ferocia, ma perché mossi da una percezione di fragilità, di debolezza».

Ne ha incontrati e ne incontra tanti, don Burgio, al Beccaria e nella sua comunità. Agli studenti, racconta le storie di questi adolescenti all’inizio chiusi, ma che poi si confidano. Come un quindicenne che prete conobbe qualche anno fa al Beccaria. «Era sempre chiuso in cella, non parlava mai, dopo un anno e mezzo di carcere, finalmente, un giorno mi chiama e mi dice: ‘Don io vorrei venire nella tua comunità . ‘Mi fa piacere, ma di comunità ne hai già fatte 10, cosa vieni a fare da me?’. ‘Io sono appassionato di musica, vorrei fare il cantante’. ‘Anch’io volevo fare il calciatore». Meglio pensare «a un piano B», un lavoro. Il quindicenne ci resta male: «Se mi dici così, vuol dire che non ti fidi di me, come tutti gli altri. Perché io farò il cantante».

Il don ci pensa due giorni e, okay, lo porta in comunità. Gli dice: «Se vuoi fare musica, la facciamo a livello serio. Tu scrivi le tue canzoni, io ti porto nello studio di registrazione e vediamo cosa ne nasce. Dietro a un bullo, a un mostro c’è sempre un ragazzo che ha delle aspettative, dei sogni. Vuole realizzare qualcosa, ha anche dei desideri belli».

Accade che in comunità quel ragazzino «davvero si mette sotto: scriveva giorno e notte. E, oggi, voi lo conoscete con il nome di Baby gang», nome d’arte di Zaccaria Mouhib. «Non è un mostro. Non giustifico i suoi reati, le sue condotte, ma io so esattamente da dove arrivano quelle condotte».

Lo rimarca, don Burgio: «Non è che i mostri, i bulli siano cattivi e basta. Sono ragazzi che vengono da situazioni difficilissime, forse sono anche vittime di un certo degrado ambientale e, quindi, vanno aiutati come le vittime».

Quando Zaccaria, Baby Gang, «mi dice: ‘Sai don, io non mi lamento perché non sono un figlio di papà, se Dio mi ha fatto vivere questa vita piena di problemi, è perché da me si aspetta qualcosa di importante’, a me piace questo tipo di ragionamento: a volte noi pensiamo che uno si debba sfogare, perché ha tutte le ragioni del mondo. Ci sono ragazzi cresciuti nella totale assenza della famiglia, delle istituzioni. Questo non ti legittima a fare reati. Questo significa che hai bisogno di trovare le persone che possano aiutarti . E così è successo con tanti altri ragazzi, li conoscete certamente».

Come Neima Ezza, «che ha una sorella disabile. Abitava al quinto piano di una casa popolare senza ascensore. Erano in 40 metri quadrati in cinque. Questo non giustifica le loro condotte sbagliate, ma quando uno ha 10-11 anni e vive in una situazione di precarietà, ad un certo punto ci sono due alternative». O «esplodi, ti butti in strada, comincia ad andare in cerca di amici e fare casini». Oppure, «implodi, scoppi dentro, stai male: ti tuffi nelle droghe, nel computer, ti tuffi in situazioni altrettanto pericolose».

Don Burgio ha a che fare con i ragazzi che esplodono, ma, rilancia, «da dove parte questo loro bullismo, questa condotta criminale? Parte dal fatto che non sono stati messi in condizione di star bene dentro».

Per concludere, «questi ragazzi che vivono in quartieri difficilissimi ce l’hanno con noi adulti, con lo Stato, perché non l’hanno mai visto o lo hanno visto quando, sbagliando, sono stati repressi: quindi, il carcere come risposta unica al loro malessere».

Ecco perché il don critica il decreto Caivano. Non ci si ritrova, «ma non per spirito polemico». Dopo tanti anni di esperienza con i ragazzi ragazzi, il prete è convinto «che non è con l’inasprimento delle pene, non è che con la paura di andare in carcere che, allora, i ragazzi smettono di fare i reati. Non è la paura che genera il cambiamento. Dietro un bullo c’è sempre una storia di sofferenza, c’è sempre qualcosa che non ha funzionato prima e allora è giusto che lo Stato faccia il proprio dovere, il Tribunale anche, le istituzioni certamente devono intervenire», ma «l’unica forma di intervento non deve essere solo quella repressiva. I ragazzi capiscono che devono cambiare solo quando trovano persone che li ascoltano, che cercano di capire da dove arriva il loro malessere. La legge e l’adulto più vicino: questo connubio allora può funzionare, sta funzionando per i casi più difficili».

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