L'ANALISI
Mario Conte sotto inchiesta per 19 anni e assolto due volte
08 Luglio 2015 - 14:04
Mario Conte
‘E se tu fossi tu l’imputato?’
Guerini & Associati
143 pagine, € 15.50
«E se fossi tu l’imputato?». Domanda di per sé inquietante, ancor più se a porla è un magistrato di lunga esperienza messo sotto inchiesta per circa 19 anni per essere poi assolto con formula piena. Un dramma professionale e umano che Mario Conte (64 anni, in magistratura dal 1978) racconta nel suo libro ‘E se fossi tu l’imputato?’ ripercorrendo le varie fasi della sua storia che lo ha visto impegnato anche su un altro fronte, quello del cancro manifestatosi nel corso del processo. «Per quasi un terzo della mia vita sono stato un imputato. Come in un film ho vissuto questo lungo periodo fatto di attese, incertezze, ricerca di un equilibrio che gli eventi, di volta in volta, sovvertivano». Quel punto di domanda, spiega Conte nel suo libro, è destinato al comune cittadino, a chi non è un addetto ai lavori: al mio posto sarebbe stato stritolato? «Sono stato pm per oltre 30 anni e ho vissuto quel che mi è successo anche come una sfida professionale, accettando le regole del gioco: ho fatto il pm nei miei confronti, ho svolto indagini difensive e acquisito documenti. Ho operato una scelta precisa: mi sono difeso nel processo e non dal processo, ho rispettato le norme, non ho rilasciato interviste, ho rinunciato alla prescrizione perché sicuro della mia innocenza e convinto che accettarla avrebbe oscurato la mia professionalità e l’immagine della magistratura». La vicenda processuale nasce dalle rivelazioni di un pentito, Biagio Rotondo, che nel 1997 comincia a rendere le sue dichiarazioni al pm di Brescia e che nel 2007 si suiciderà. Dopo ben due anni, il processo sarà trasmesso da Brescia a Milano per competenza e qui inizia un palleggiamento tra Milano e Bologna fino a quando la procura generale della Cassazione stabilirà la competenza dell’autorità giudiziaria di Milano. «Si è indagato su di me e alla fine mi è stato detto, in pratica, ci siamo sbagliati. Nessuno ha chiesto scusa».
Il processo ha riguardato diverse indagini sotto copertura condotte fra il ’91 e il ’97 dai carabinieri del Ros di Bergamo e Roma, guidati dal generale Giampaolo Ganzer, e coordinate da Conte, relative a traffici internazionali di stupefacenti: secondo l’accusa, si sarebbe trattato di operazioni ‘costruite’ dai carabinieri per conseguire brillanti operazioni di polizia con l’avallo del pm Conte. Sul coinvolgimento di Conte nella vicenda processuale Rotondo avrebbe tentennato più volte. Il magistrato ha dovuto esaminare, studiare, vagliare migliaia di atti a tal riguardo ha addirittura ideato, con l’aiuto di un tecnico, un apposito software. Una massa documentale, la cui origine si perde nella notte dei tempi, che, a detta di Conte, ha portato al ripetersi di errori e travisamenti dei fatti da parte degli investigatori e degli inquirenti che si sono occupati della vicenda. Conte oltre ad evidenziare le discrasie del sistema suggerisce anche alcune soluzioni a un sistema giudiziario che, talvolta, sembra aver perduto i suoi punti di riferimento e che deve recuperare la «cultura della prova». Un tormento processuale e umano, nel libro, dove si evidenzia una sostanziale inversione dell’onere della prova. Contraddizioni presenti in questi anni anche nella progressione in carriera del magistrato. Nonostante l’inchiesta, Conte è stato, infatti, con parere favorevole del Csm, consulente part-time della commissione Antimafia e addetto alla Direzione distrettuale antimafia di Brescia (incarichi dai quali poi ha ritenuto opportuno dimettersi ragioni di trasparenza). Lo stesso che, tuttavia, gli ha bloccato la carriera: «per il Csm, a seconda delle circostanze, una volta ero mister Hyde e un’altra il dottor Jekyll».
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