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Diritto di Critica - "Il Discorso del Re" (20 e 21 dicembre 2012)

Betty Faustinelli

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20 Febbraio 2013 - 16:06

Diritto di Critica - "Il Discorso del Re" (20 e 21 dicembre 2012)
TOMMASO CAMPELLI - Un re timido e insicuro e un logopedista esuberante e comico, un Giorgio III che non riesce a vestire il ruolo regale e un Lionel che vede sfumare il suo sogno di attore: tra questi due estremi un rapporto di amicizia complesso e dinamico, che rompe distanze e diversità, capovolgendo il corso della storia. E' quanto è andato in scena ne "Il discorso del Re", diretto e interpretato da un fantastico Luca Barbareschi. Lo spettacolo è caratterizzato da una ambivalenza di fondo, che ne determina i punti migliori ma anche quelli meno entusiasmanti. Il contesto storico, con la seconda guerra mondiale alle porte e i problemi dinastici nel regno d'Inghilterra sono i primi particolari che introducono lo spettatore in un mondo totalmente diviso, che prolunga tali divergenze fin nei rapporti interpersonali. Su questo sfondo ha luogo l'incontro tra Lionel (Barbareschi), un attore ormai fallito, semplice ma sognatore e il futuro re Giorgio III (Filippo Dini), che a causa della sua balbuzie si prospetta come un fallimentare monarca. Anch'essi sono simboli di questa divisione, ma sembrano allo stesso tempo una risposta ad essa: due caratteri diametralmente opposti si avvicinano, fino a raggiungere insieme il superamento degli ostacoli personali e addirittura mondiali. L'alternarsi della recitazione a brevi spezzoni di video dell'epoca è un'interessante scelta di regia, così come i rulli sullo sfondo, che cambiano le ambientazioni, sono un azzeccato espediente scenico, senza sfociare nella sovrabbondanza. In alcuni tratti, tuttavia, la rappresentazione si dilunga: molti dialoghi pesanti e difficili da seguire fanno cadere l'attenzione, ridestata improvvisamente da note di ironia sparse qua e là. Un ritmo non sempre incalzante, sequenze che risultano superflue e noiose e un cast non totalmente brillante rischiano di sminuire il valore dell'opera, che, specialmente nel secondo atto, fatica ad emergere, lasciando irrisolti molti spunti di riflessione. A rialzare il tutto è uno straordinario Barbareschi, pienamente nel personaggio, esuberante, comico e profondo insieme, che sfoggia tutta la sua abilità di recitazione, verbale e non. Un'opera interessante, ma non eccezionale, drammatica, ma non coinvolgente fino in fondo, lascia lo spettatore soddisfatto seppur non entusiasta, tuttavia il Ponchielli sembra non avere dubbi: al termine, gli applausi sono fragorosi.

GIULIA PIETTA - Una bella storia, un teatro d’intrattenimento quasi monotono e una “superficiale profondità” hanno aperto ieri sera senza troppi entusiasmi la stagione teatrale del Ponchielli. “Il discorso del re” di David Seidler torna sulla scena teatrale con la regia di Luca Barbareschi dopo il grande successo riscosso dalla versione cinematografica pluripremiata di Tom Hooper. Ambientata nell’anteguerra inglese degli anni trenta, l’opera tratta la vera storia del balbuziente Albert (interpretato da Filippo Dini), secondogenito di re Giorgio V. Egli, incapace di tenere i numerosi discorsi pubblici, propri del suo ruolo, e terrorizzato all’ipotesi di dover sostituire il legittimo successore David (Mauro Santopietro) nel ruolo di re d’Inghilterra, viene spinto dalla moglie Elizabeth (Astrid Meloni) ad affidarsi alle bizzarre cure del logopedista australiano Lionel Logue, attore fallito (interpretato da Luca Barbareschi).Il confronto con il noto film di Hooper è inevitabile e ogni grande aspettativa è sfatata. In una storia in cui dovrebbero fondersi perfettamente drammaticità e ironia, sul palcoscenico appare solo un ripetersi estenuante di scene simili. Il godibile primo atto mostra già ogni aspetto, ogni sfumatura dell’opera e dei personaggi: strappa sorrisi e conquista emotivamente con il dialogo, il confronto tra Lionel e Bertie (Albert). L’entusiasmo viene meno e la noia prevale con il secondo atto: una copia in sintesi del precedente. “Il discorso del re” di Luca Barbareschi manca, inoltre, di una rielaborazione personale, sembra pura trasposizione del film in teatro: mimica, intonazioni, atteggiamenti e perfino tecniche sonore sono ‘copiate’ dal lavoro di Hooper e dei suoi attori. Azzardo studiato o mancata creatività? In ogni caso, la prova dei due attori protagonisti, Filippo Dini e lo stesso Luca Barbareschi, è buona: non reinterpretano i loro personaggi, ma entrano comunque in sintonia con essi. Decisamente positiva è la performance di Ruggero Cara, interprete di Winston Churchill, che conquista con poche battute l’intero pubblico. Una nota di merito va anche alla sobria scenografia mobile che permette un’interessante interazione tra immagini-video e azione vera e propria. Tuttavia, soluzioni sceniche innovative e storie di successo non necessariamente portano alla buona riuscita di un’opera: intrattenere è difficile, ancora di più è farlo per ben più di due ore.

FRANCESCA GALLI - Risuona d’applausi Il Ponchielli di Cremona per Luca Barbareschi e Filippo Dini, nei panni dei due grandi protagonisti dell’opera di Seidler “Il discorso del Re”, rappresentata la sera del 21 dicembre. Barbareschi interpreta Lionel Logue, logopedista australiano che sogna di fare l’attore nella Londra degli anni ‘30. Per la sua straordinaria capacità di leggere nell’animo umano diventa l’unica ancora di salvezza per il balbuziente secondogenito di Giorgio V d’Inghilterra, Bertie alias Filippo Dini. E’ sua moglie (Astrid Meloni) a condurlo da Lionel dopo svariati fallimenti presso altri terapisti. Al primo incontro, sulla scia della musica classica e di versi scespiriani Lionel dimostra a Bertie che la sua balbuzie è curabile. Gli attori si muovono in una scenografia dinamica, le scene sono scandite dall’aprirsi e dal chiudersi di diversi siparietti che s’infilano sottilmente tra i personaggi, come le loro vicende personali s’inseriscono nella grande Storia. E’ l’epoca in cui si sviluppa la radio, strumento di comunicazione essenziale per un capo di stato. Forte la contrapposizione con Hitler la cui voce risuona chiara, limpida, senza esitazione, in netto contrasto con il balbettante, insicuro Bertie, spaventato dai pesanti doveri destinati a gravare sulle sue spalle: re Giorgio V è morto e il primogenito, David, è uno scapestrato innamorato perdutamente di un’americana divorziata e di facili costumi. Intanto Bertie e Lionel proseguono nella terapia condotta nei modi più bizzarri e anticonformistici. L’atteggiamento indispettito della regalità si scontra con un approccio diretto e impudente, sfrontato, che suscita simpatia. Come aveva affermato Barbareschi prima dello spettacolo: “La comicità è cattiva, immediata, scorretta”. Lionel sul palco è il più dinamico, la sua interpretazione prende vigore dalla mimica dei gesti e delle espressioni. Al contrario Bertie è impettito, statuario, rivestito da una regalità che maschera il suo impaccio e disagio verso il mondo esterno. E’ dietro la patina dell’ironia che si disegna allora l’ombra dell’amarezza e della malinconia di una commedia umana, e lo spettatore è sospinto dall’estremo dell’ilarità a quello della commozione. Il successo della terapia giunge, e lo spettacolo si chiude con il discorso di Bertie, ormai re, alla nazione, con un’ultima e memorabile celebrazione della parola.

NOEMI MARCHESI - La storia di una sincera e profonda amicizia è il fulcro dell’opera teatrale ‘Il discorso del re’, in scena al Ponchielli il 20 dicembre. Sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, il futuro re Giorgio VI, detto anche Bertie, si vede costretto a seguire una particolare cura per la sua balbuzie, proposta dall’amorevole moglie Elisabetta, la quale gli presenta il logopedista Lionel. Da questo incontro nasce un rapporto di sincero affetto tra i due uomini, scandito da ironia e accese discussioni. Il pubblico è divertito dalle battute del sagace Lionel che si affida alla propria esperienza concreta e non ad uno studio accademico per aiutare il Duca di York. La scenografia si presenta mobile e varia con l’utilizzo di tre rulli esagonali, i quali mutano lo sfondo ad ogni cambio di scena. Significative sono le proiezioni di alcuni discorsi di Hitler che ben evidenziano la differenza tra l’oratoria persuasiva del Führer e quella dello sfortunato Bertie. Il Duca si trova ancora più in difficoltà nel momento in cui il fratello abiura per sposare una donna divorziata e, di conseguenza, non può rifiutarsi di accettare la corona. Tuttavia, se la prima parte dell’opera cattura l’attenzione dello spettatore, la seconda si dimostra piuttosto monotona e appesantita da scene e dialoghi troppo lunghi. Infatti, molte battute sono analoghe alla versione cinematografica di Tom Hooper. Quest’ultimo è sicuramente riuscito a rappresentare più abilmente determinate scene, come la discussione nell’Abbazia di Westminster, soprattutto grazie alla bravura di Colin Firth e Geoffrey Rush. In aggiunta, nella scena finale in cui Giorgio VI pronuncia il primo discorso in tempo di guerra, è mancato quel grado di solennità e tensione nella voce del re che rendono questo momento fondamentale e fortemente simbolico. Dal canto suo, l’opera presenta una struttura e un insieme di messaggi immediati, forse anche troppo. Non ci sono significati reconditi che possono dare quell’alone di mistero particolarmente affascinante.

CHIARA VENTURA - “Io ho il diritto di avere una voce, ne ho il diritto”. La voce rappresenta lo strumento fondamentale, essenziale, che sta alla base di qualsiasi rapporto umano; ma questa volta non si tratta di una voce qualsiasi, non è una delle tante che affollano le strade e i vicoli della Londra degli anni Venti, ma è la voce di Albert (Filippo Dini), duca di York, futuro re Giorgio VI, la voce della storia che, attraverso gli anni, è destinata a giungere fino a noi, la voce di un intero popolo. Nessuno avrebbe potuto aiutarlo, già molti medici illustri avevano tentato senza successo di correggere la grave balbuzie che affliggeva il futuro monarca, fino a quando la moglie devota, Elisabetta (Astrid Meloni), non si rivolse ad un logopedista australiano, Lionel Logue (Luca Barbareschi), che cocciutamente continuò a tentare, sfidando la rabbia impotente di Bertie, ormai abbattuto e senza speranze, ed instaurando con lui un rapporto di grande rispetto e sincera amicizia. Lo spettacolo, andato in scena al teatro Ponchielli di Cremona, ha riscontrato grande successo tra il pubblico, che ha ripetutamente applaudito l’esemplare interpretazione di Barbareschi, regista e attore formidabile, in grado di rappresentare, attraverso scene spesso comiche ma sempre profonde, il dramma di un uomo e di una intera nazione sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale, nazione fragile almeno quanto il futuro sovrano. Il duca avrebbe, infatti, preferito nascondersi dietro l’ombra del fratello maggiore David (Mauro Santopietro), che rinunciò al trono per amore di Wallis Simpson, lasciando a lui la corona e tutti i doveri che da essa derivano, il primo dei quali è servire il proprio popolo. Fondamentale è la figura di Lionel, attore fallito e improvvisato logopedista, che persino contro l’iniziale disappunto della moglie Myrtle (Chiara Claudi) conduce la sua battaglia per riscattare Bertie degli anni di torture subite a causa di una serva insensibile e di una malattia alle gambe ma, soprattutto, per riscattare se stesso, per compiere un gesto importante, un’opera che sarebbe rimasta come impronta indelebile del suo passaggio nella storia. I due uomini si aiutano così a vicenda, soffrendo e lottando insieme per costruire il proprio futuro con la forza della determinazione e il coraggio di chi spera sempre.

TOMMASO CAMPELLI - Un re timido e insicuro e un logopedista esuberante e comico, un Giorgio VI che non riesce a vestire il ruolo regale e un Lionel che vede sfumare il suo sogno di attore: tra questi due estremi un rapporto di amicizia complesso e dinamico, che rompe distanze e diversità, capovolgendo il corso della storia. E' quanto è andato in scena ne "Il discorso del Re", diretto e interpretato da un fantastico Luca Barbareschi. Lo spettacolo è caratterizzato da una ambivalenza di fondo, che ne determina i punti migliori ma anche quelli meno entusiasmanti. Il contesto storico, con la seconda guerra mondiale alle porte e i problemi dinastici nel regno d'Inghilterra sono i primi particolari che introducono lo spettatore in un mondo totalmente diviso, che prolunga tali divergenze fin nei rapporti interpersonali. Su questo sfondo ha luogo l'incontro tra Lionel (Barbareschi), un attore ormai fallito, semplice ma sognatore e il futuro re Giorgio VI (Filippo Dini), che a causa della sua balbuzie si prospetta come un fallimentare monarca. Anch’essi sono simboli di questa divisione, ma sembrano allo stesso tempo una risposta ad essa: due caratteri diametralmente opposti si avvicinano, fino a raggiungere insieme il superamento degli ostacoli personali e addirittura mondiali. L’alternarsi della recitazione a brevi spezzoni di video dell’epoca è un’interessante scelta di regia, così come i rulli sullo sfondo, che cambiano le ambientazioni, sono un azzeccato espediente scenico, senza sfociare nella sovrabbondanza. In alcuni tratti, tuttavia, la rappresentazione si dilunga: molti dialoghi pesanti e difficili da seguire fanno cadere l'attenzione, ridestata improvvisamente da note di ironia sparse qua e là. Un ritmo non sempre incalzante, sequenze che risultano superflue e noiose e un cast non totalmente brillante rischiano di sminuire il valore dell'opera, che, specialmente nel secondo atto, fatica ad emergere, lasciando irrisolti molti spunti di riflessione. A rialzare il tutto è uno straordinario Barbareschi, pienamente nel personaggio, esuberante, comico e profondo insieme, che sfoggia tutta la sua abilità di recitazione, verbale e non. Un'opera interessante, ma non eccezionale, drammatica, ma non coinvolgente fino in fondo, lascia lo spettatore soddisfatto seppur non entusiasta, tuttavia il Ponchielli sembra non avere dubbi: al termine, gli applausi sono fragorosi.

FRANCESCA RABAIOTTI - Luca Barbareschi apre la stagione di prosa 2012/2013 del principale teatro cittadino Ponchielli il 20 Dicembre con “Il discorso del re”, testo reso famoso dalla versione cinematografica pluripremiata con Oscar di Tom Hooper. La vicenda, ambientata a cavallo tra gli anni 20 e 30 del XX secolo a Londra, è incentrata sulle vicende di Bertie, o meglio Albert Frederick Arthur George Windsor, balbuziente secondogenito del re Giorgio V. In seguito alla morte del padre, il fratello maggiore Edoardo sale al trono, ma abdica neanche un anno dopo per amore di Wallis Simpson. Quindi a Bertie tocca il peso della corona. Dato che il suo handicap gli rende molto difficile compiere discorsi in pubblico, la moglie Elisabetta gli consiglia di rivolgersi al carismatico logopedista australiano Lionel, che attraverso un misto tra psicanalisi e laboratorio teatrale e canoro, aiuta Bertie a superare, anche se con non poche difficoltà, il suo problema. Il rapporto tra i due, inizialmente un po' teso, è destinato a sfociare in una profonda amicizia. In questa pièce teatrale Barbareschi mette a confronto due personalità opposte: lo spiritoso, generoso e anche un po' ciarlatano medico e l’ingessato, rigido Bertie. La rappresentazione si avvale anche di una scenografia (di Massimiliano Nocente) completa e resa particolare dalle proiezioni di materiale d'epoca. Luca Barbareschi porta in scena con Filippo Dini una commedia in cui ironia e drammaticità stanno sullo stesso piano. E’ una storia sul senso di responsabilità, sulla solidarietà famigliare e sulla forza di volontà che permette di superare ostacoli apparentemente insormontabili.

LORENZO VEZZINI - Essere dei bravi attori e dei bravi oratori è cosa da pochi e se non fai parte di quei pochi essere principe nonché potenziale re è difficile. Lo è soprattutto per Bertie, per i non amici principe Albert, balbuziente reso insicuro da un’infanzia priva di affetti. Ad aiutarlo nel superare queste difficoltà è un “uomo comune”, il logopedista Lionel, attore fallito, che diventa anche suo psicologo ma soprattutto amico. Tratto dall’omonimo film, successo di critica, l’opera di Barbareschi ha prevedibilmente attirato un pubblico numeroso e, complice la fama del regista nonché attore co-protagonista, le aspettative erano alte; e effettivamente la prima impressione è buona. La scenografia è ottima, con uno sfondo composto da tasselli a gruppi di tre che si scambiano “a slot machine” e l’incastro tramite video proiezioni di filmati d’epoca, trovata molto intelligente che permette di contestualizzare senza appesantire. Anche l’apertura con il patetico discorso del re che fatica a parlare colpisce e incuriosisce. Purtroppo non altrettanto fa il resto della storia. L’equilibrio perfetto mantenuto tra toni drammatici e episodi più leggeri infatti è sicuramente ben studiato e di classe, ma sacrifica a un risultato garbato l’impatto emotivo dell’opera. Quest’ultima risulta così insipida e in più tratti scade nella noia, tenendosi a distanza di sicurezza dall’emozionare. Inoltre il rapporto tra i due protagonisti come la relazione tra il ricco infelice e il povero soddisfatto risulta già sentito, perdendo così ogni fascino. A risollevare l’interesse ci prova l’umorismo intelligente di cui l’opera è cosparso, anch’esso dotato di una buona dose di “under statement”, che però non è sufficiente. Il problema si aggrava nella seconda parte, che porta l’opera alla durata eccessiva, per la trama, di 140 minuti, così che lo sguardo dello spettatore vola più volte in direzione dell’orologio. D’altra parte la resa è impeccabile: l’ambientazione funziona e gli attori mostrano grande abilità. Il cast è perfettamente all’altezza e lo stesso Barbareschi è a suo agio nei panni del simpatico e intelligente logopedista. Proprio a lui a fine spettacolo viene tributata un’ovazione da parte del pubblico, ma allo spettatore malizioso sorge spontaneo chiedersi se si applaude alla fama dell’attore o alla sua creazione.

BEATRICE DALLOLI - Barbareschi non delude, con ironia e grande drammaticità, un Ponchielli ‘giovane’. Giovedì 20 dicembre, nel celebre teatro cremonese, “Il Discorso del Re” di David Seidler ha aperto la Stagione di Prosa 2012-2013. Sullo sfondo una Londra surreale degli Anni ’20 del Novecento, resa in modo sublime da Massimiliano Nocente con tre parallelepipedi in continua rotazione, l’atmosfera rasserenante degli ambienti familiari, caratterizzata da colori caldi, è in contrasto perenne con Buckingham Palace e con i video in bianco e nero dei più grandi trascinatori di folle – da Hitler a Stalin. Filippo Dini interpreta, con elegante pathos, l’indifeso Bertie, secondogenito di Re Giorgio V d’Inghilterra. Solo un attore fallito, Lionel Logue (Barbareschi), immigrato dall’Australia, sostenuto dalla paziente moglie, riesce a guarire la balbuzie del Principe, da sempre sottovalutato per questo handicap. Barbareschi come Forrest Gump cambia il corso della storia in buona fede, evitando un’alleanza tra Germania ed Inghilterra nella Seconda Guerra Mondiale. Uno studio psicanalitico e contemporaneamente teatrale travolge lo spettatore, che non vede mai allontanarsi, però, la componente storica della vicenda. Lionel si addentra nell’infanzia del Principe, sottolineandone soprusi e difficoltà, arrivando a formare un vero uomo, Re Giorgio VI. Astrid Meloni e Chiara Claudi, rispettivamente compagne di Dini e Barbareschi, contribuiscono a rendere la pièce viva ed umana. Il ritorno a teatro del “Discorso del Re” -con la regia di Barbareschi- regge il confronto con il pluripremiato capolavoro cinematografico di Tom Hooper.

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