Secondo Paolo Diacono Cremona fu rasa al suolo dai guerrieri di Agilulfo. La frase riportata nella ‘Historia Langobardorum’ è stata lungo discussa dagli storici locali. Secondo alcuni la distruzione riguardò solo le mura. Di diverso avviso Lorenzo Astegiano, e con lui Ugo Gualazzini. Quest’ultimo infatti ritiene che le ceneri, le assi bruciate e i pezzi di marmo ritrovati durante la costruzione della galleria XXIII marzo (ora XXV Aprile) durante il 1927 siano i resti della città dopo la distruzione longobarda. Lo strato di reperti fu trovato sopra mosaici dei secoli III-IV dopo Cristo, per questo è da scartare l’ipotesi che possa indicare l’altra distruzione, quella avvenuta nel 69 dopo Cristo ad opera delle truppe di Vespasiano. Sempre secondo Gualazzini sarebbe lo stesso Paolo Diacono a fornire la prova del suo racconto. Lo studioso cremonese infatti mette a confronto i passi relativi all’assedio di Cremona e Mantova. Per quanto riguarda il primo lo scrittore longobardo è categorico: la città fu rasa al suolo, mentre sulla fine di Mantova non ri- porta nulla, anzi fa presupporre che la città ebbe trattamento diverso. Sembra infatti che le truppe bizantine fossero venute a patti e poterono ritornarsene a Ravenna indisturba- te, cosa che non poterono fare quelle di Cremona. Un’altra circostanza proverebbe la distruzione, la città infatti non fu eretta a ducato, un gastaldo fu ins diato nella corte di Sospiro, Sex pilae, a sei miglia. Data per certa dunque la distruzione della città il potere dei nuovi conquistatori è rurale, si sposta nelle curtes agricole. Ma com’è Cremona sotto il dominio longobardo? Come, quando e in che termini viene ricostruita? Anche in questo caso si possono fare solo congetture, anche se ben argomentate. In città si possono indivi- duare tre insediamenti certi: quel che rimane della Cataulada e dei suoi abitanti a nord; la vecchia porzione centrale abbarbicata intorno al potere vescovile; e la zona a nord-est, che i conquistatori stanno riedificando intorno alla chiesa di San Michele dominante il Po, nella zona che i Longobardi chiamavano le Mose. Come già riportato i Bizantini erano asserragliati nella Cataulada. Dopo la presa della città molti soldati poterono rimanere con le loro famiglie. Del resto il loro stipendio consisteva proprio nello sfruttamento della terra che Bisanzio aveva loro concesso, ma non in diritto di proprietà. La Cataulada si trasforma in Gadium, ma anche con i Longobardi rimane demaniale. Agilulfo mantenne i Bizantini anche perché aveva bisogno di loro, i greci sapevano na- vigare i Longobardi no (ancora nel VII-VIII secolo il re Liutprando dà ai Comacchiesi la possibilità di provvedere alla navigabilità del Po). Gli abitanti della vecchia cataulada vivevano alquanto staccati dal resto della città, secondo usi e costumi greci o alamannici. Molto probabilmente erano bravi armaioli e ottimi contadini e anche con i nuovi conquistatori continuarono a svolgere queste attività. La zona era dominata dalla chiesa di sant’Apollinare, costruita vicino al porto fluviale, ma che al tempo dei Longobardi si era forse trasformata già in palude, essendosi il Po spostato. Ma un altro insediamento ecclesiastico favorì l’inurbamento di questa parte della città. Nel 753 fu costruito il monastero di San Silvestro, nato da una costola di quello di Nonantola . A onore del vero l’atto di fondazione viene considerato falso, ma secondo Gualazzini i ‘falsari’ del XII secolo si sarebbero ispirati a un documento reale, ripro- dotto durante le forti diatribe sulle proprietà tra vescovo, clero e ordini religiosi scoppiate dal X al XII secolo. Della chiesa rimangono attualmente alcune tracce in un antico palazzo nobiliare. Nella città vecchia l’unica autorità rimasta sembra fosse quella vescovile, molto probabilmente, secondo Gualazzini, la ricostruzione sarebbe ripartita da qui. Si ha notizia che nel 679 il vescovo Desiderio partecipò al concilio di Milano. La storia diocesana prima di questa data non riporta nulla, se non leggende di vescovi mai esistiti, come Sisto II, frutto della fantasia del sacerdote Antonio Dragoni (1824). Così come sembra non risponda a verità il fatto che Cremona avesse il doppio vescovo, come previsto dall’editto di Rotari, uno cattolico l’altro ariano. Ma da queste poche oscure notizie una cosa è certa: la sede vescovile non fu soppressa, anzi permise inoltre a quel che rimaneva della città di mantenere il suo primato sul territorio circostante. Del resto Cremona aveva una posizione preminente sul Po, la riedificazione conveniva ai conquistatori. Fulvio Stumpo