L'ANALISI
28 Gennaio 2024 - 10:10
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga (a Cafàrnao), insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Mc 1,21-28
Anche le cronache recenti ce lo hanno confermato: uno dei problemi più seri con cui dobbiamo convivere è l’autorevolezza delle parole. Tutti, e giustamente, parlano ed hanno il diritto di concorrere al dibattito pubblico, portando i propri punti di vista e le rispettive prospettive. Ma non tutti i messaggi, non tutti i contributi sono ugualmente costruttivi e possono, a volte, nascondere interessi spuri, perversioni o superficialità. La parola tradita, specie se amplificata, ferisce e getta nel pessimismo; è come se si spezzasse un patto non dichiarato che vorrebbe fare delle relazioni sociali uno spazio autentico, dove l’umano può trovare rassicurazione.
Qualcosa di analogo è raccontato dal brano odierno del vangelo di Marco. A Cafarnao, anche senza decine di canali TV o svariate testate giornalistiche, la comunità viveva di parole, relazioni, occasioni di incontro. Più in generale, l’Ebraismo aveva fatto della Parola, in particolare della Torah, una questione così importante da poter sostenere tutto: dal diritto civile alla religione, dalle consuetudini sociali alle norme sanitarie. E per questo c’era un gran bisogno di interpreti autorizzati, gente esperta e competente, insomma degli addetti ai lavori, tra cui gli ‘scribi’, i maestri della grammatica legale di Israele. Un po’ come accade oggi, dentro una certa deriva opinionista: servono esperti su tutto perché tutto è complesso, e poco importa se a volte i volti di chi è esperto di tutto… si ripetono con sorprendente regolarità.
Ma allora come oggi restava sul terreno lo snodo dell’autorevolezza, quella che sola può coniugare senso ed efficacia, valore e vita. Marco mette in scena un primo, prezioso riconoscimento, utile al suo piano letterario: dimostrare che la profezia di Gesù, anzi la sua stessa persona, è irruzione del regno e non semplice, stanca ripetizione di un diritto tronfio; e guidare il lettore ad incrociare il mistero di quell’uomo in cui parola e biografia si saldano in modo formidabile. Il termine greco che l’evangelista introduce è exusìa, una capacità che ha a che fare con il potere, la sua traduzione pratica e la libertà di chi lo esercita.
E la gente di Cafarnao si stupisce perché, finalmente, può udire parole che non si limitano a ripetere stancamente norme, confini o divieti, ma liberano e restituiscono dignità. Nel linguaggio di Marco questo processo di riappropriazione assume le sfumature del demoniaco scacciato, dell’impurità lavata. Potremmo discutere a lungo, scomodare medicina e psicologia, magari ricorrere a qualche terapia psichiatrica, ma è il risultato che conta: l’essere umano cerca una liberazione che lo autorizzi a vivere, ha bisogno di scorgere una figura che lo risollevi, una mano umana che gli ricordi chi è e, soprattutto, una parola benedicente che lo riscatti. Per questo Marco fa incontrare Gesù con i demoni: l’umanità libera con la perversione che dilania.
Il bisogno che il Vangelo mette in scena risuona oggi in forma ancora più acuta. E ce ne accorgiamo agevolmente, se solo non distogliamo lo sguardo da quanto le cronache ci rimandano: l’ennesima condanna a morte in Alabama (avrebbero utilizzato addirittura l’azoto per ‘terminare’ il condannato), le atrocità delle decine di guerre in corso, il ricordo che serra il cuore dei genocidi perpetrati nella Seconda guerra mondiale e nelle dittature del ‘900.
La comunità cristiana che si raccoglie la domenica, pur tra mille, evidenti difetti e stanchezze, è questa exusìa che cerca e celebra. Forse si ingannerà, forse coltiverà un sogno che sconfina nell’illusione, eppure nutre per sé e per l’umanità il desiderio che le parole (quelle di Dio e quelle degli uomini) siano impiegate per costruire case e non armi, liberare e non rinchiudere, risollevare e non abbattere.
Marco ci ricorda che alle parole di Gesù, sempre collegate a gesti di umanità, vicinanza e riconoscimento della dignità (perché – ci dicono i Vangeli – questo è lo stile di Dio) sono efficaci: scacciano il divisore che dilania la comunione, inaugurano la pace e, soprattutto, dichiarano che il riconoscimento della dignità dell’altro è possibile. Mettono a tacere il male. Una lezione di custodia delle parole di tutti, del loro potere, della loro urgenza sanante. Accanto a quelle di Dio.
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