L'ANALISI
IL COMMENTO AL VANGELO
13 Gennaio 2024 - 05:15
Don Paolo Arienti
CREMONA - Inaugurato a fine anni Novanta da don Raffaele Carletti, allora parroco di Picenengo, proseguito dal teologo e biblista don Romeo Cavedo, morto di recente, l’appuntamento domenicale con il Vangelo sul giornale La Provincia di Cremona e Crema e il relativo commento è stato poi affidato a don Marco D’Agostino, rettore del Seminario diocesano, che per ben sedici anni ha dato spazio alla Parola di Dio sulle pagine del nostro quotidiano.
Da domenica 14 assume questo servizio, che incontra le attese dei credenti, ma è offerto a tutti i ‘pensanti’ (come amavano dire sia il cardinale Carlo Maria Martini sia il filosofo laico Norberto Bobbio), don Paolo Arienti, parroco di Sant’Ambrogio dal 2021 e, dallo scorso anno, anche di San Giuseppe al Cambonino. Cinquantunenne, di Piadena, don Arienti è stato ordinato sacerdote nel 1999 dal vescovo Giulio Nicolini. È stato vicario a Sant’Abbondio, poi ha studiato a Roma conseguendo la licenza in teologia dogmatica, è divenuto segretario dell’Ufficio evangelizzazione e catechesi della Chiesa cremonese, poi vicario a Cristo Re. Dal 2011 è stato responsabile dell’Ufficio per la pastorale giovanile, settore poi seguito con altri incarichi. Le sue prime esperienze da parroco (‘in solido’) le ha fatte dal 2012 a Binanuova-Ca' de Stefani-Gabbioneta-Vescovato e in seguito anche a Pescarolo-Pieve Terzagni. È docente nell'Istituto di scienze religiose di Lodi e insegnante di religione nel liceo scientifico Aselli di Cremona. A don Arienti abbiamo rivolto alcune domande.
Don Paolo, lei raccoglie, dopo sedici anni, il testimone da don Marco D’Agostino nel commento domenicale al Vangelo sulle pagine de ‘La Provincia di Cremona e Crema’. Con quale approccio intende proporlo ai lettori, cattolici e non, del quotidiano?
«Innanzitutto accolgo la proposta come una opportunità. Non perché si debba per forza e sempre spiegare qualcosa a qualcuno, ma perché le parole, scritte o pronunciate a voce, sono sempre un ponte, costruiscono condivisioni e lanciano provocazioni. Per il Cristianesimo al cuore di tutto c’è un incontro incredibile tra parola e carne: direi tra idee, senso e storia. Credo sia l’esperienza, la ricerca di ciascuno di noi, anche di chi non è espressamente credente. E penso in particolare a chi è più giovane».
Alla formazione teologica lei unisce un'esperienza pastorale intensa e multiforme. Ha incominciato come vicario a Sant'Abbondio subito dopo l'ordinazione nel 1999, adesso, dopo varie altre tappe, è parroco di S. Ambrogio e del Cambonino. Nel presentarsi ai lettori, soprattutto a chi non la conosce direttamente, cosa vorrebbe sottolineare come particolarmente significativo del suo ministero di prete?
«Direi la normalità della vita e un lavoro che vorrebbe assomigliare sempre meno a chi al mattino apre una bottega per vendere prodotti (beninteso: viva le botteghe!) e sempre più a chi desidera camminare e non dare per scontato che tutto sia imbottigliato o imbavagliato. La Parola per noi cristiani e le parole di senso per tutti ci spingono a stare su questa strada».
I giovani sono stati e costituiscono per lei un ambito privilegiato di dialogo e di missione. Come vicario negli oratori, poi responsabile diocesano della pastorale giovanile, presidente della Federazione oratori, coordinatore dell’area ‘In ascolto dei giovani’, consulente ecclesiastico del Csi; in diocesi ha avuto parte anche nella celebrazione del Sinodo dei giovani. Come vede oggi, qui a Cremona, il rapporto fra i giovani, il Vangelo e la Chiesa?
«Credo che il rapporto sia difficilmente decifrabile. I legami tra i giovani e le comunità ecclesiali sono deboli, e lo sono da tantissimi anni, come frutto di un processo che ha molte ragioni. L’espressione ‘i giovani se ne vanno’ è vera e fa anche soffrire, ma in parte è condizione naturale, necessaria perché la vita continui. Non possiamo, nelle parrocchie, nelle famiglie e in generale in tutte le organizzazioni sociali, solo arruolare i giovani perché ‘ci siano e diano una mano’. Occorrerebbe mantenere i contatti e benedire il loro cammino, tenendo sempre le porte aperte; e gioire per ogni incontro. Detto questo, è bellissimo constatare anche l’impegno generoso di molti che nel loro andare ritornano, si fermano, danno il loro tempo perché capiscono che nella relazione fraterna sta il vero antidoto alla solitudine disperante che c’è in giro».
Prevalgono l’indifferenza, un interesse capace di coinvolgere o la lontananza?
«La materia è mista. Se stessimo alla pressione mediatica che fa emergere fatalmente solo il negativo, ciò che è scioccante e ferisce, verrebbe da dire che siamo immersi nella più totale indifferenza. Ma l’esperienza che cerca di scorgere il cuore, dice anche altro. Colpisce il desiderio di verità che a volte si incontra. Colpiscono certe intelligenze che desiderano costruire. C’è da chiedersi però quali parole, storie e presenze il mondo adulto stia affiancando a questi giovani».
Lei è anche docente nell'Istituto superiore di scienze religiose S. Agostino di Lodi. La sua materia specifica è il ‘mistero di Dio’. Che spazio c’è per il mistero in una società sempre più disegnata e dominata dalla scienza, dalla tecnica e pure dalla fretta?
«La contrapposizione tra trascendenza (il mistero) e immanenza (la tecnica, la prassi, la fretta dipinta di guadagno) forse è questione superata. Le recenti e continue lezioni della storia ci hanno ricordato, e dolorosamente, che non si vive solo di dati certi né solo di performance. Abbiamo però bisogno di dircelo e di spezzare certi criteri puramente quantitativi. Il vero problema oggi è tornare ad allenare le nostre coscienze alla realtà (che di per sé è un mistero, anche se non espressamente quello di Dio): chi ho davanti? A quale mondo appartengo? Che cosa dipende da me o solo da chi governa, mi deve un servizio? È curioso che nella teologia che Lei evocava nella domanda, ‘mistero’ sia in realtà un termine tecnico che designa non solo quel che non si conosce, ma piuttosto un progetto, una prospettiva. Credo sia questa seconda accezione che dobbiamo sostenere con le nostre vite. Detto in termini laici, la fecondità del bene. E quanto bisogno ce n’è!».
Diversi osservatori oggi avvertono o denunciano una Chiesa divisa, perfino polarizzata. Condivide questa analisi? E, nel caso, sa indicare un rimedio?
«Le polarizzazioni ci sono, e sono molto dolorose. Accanto ad energie che guardano avanti e vorrebbero continuare ad amare la carne di Cristo che abita in questa storia, con le sue contraddizioni e i suoi guai, esistono altre forze che preferiscono la tutela del sacro, forse per la paura di smarrire una identità precisa. Entrambe queste ‘anime’ sono strutturali del Cristianesimo e discendono dal suo cuore, l’identità paradossale di Gesù. Nessuna sorpresa allora. Resta il bisogno di dialogo, confronto e sintesi. Non esistono questioni complesse che supportino risposte semplici. Sarebbe avvilente. Ciò che va temuto è l’uso di toni ideologici che purtroppo si vedono dentro e fuori i confini della Chiesa. Certe polarizzazioni non ci vengono insegnate anche altrove? Il pregiudizio non è uno sport nazionale? Dovremmo lavorare tutti per guadagnare una capacità più ragionevole e fraterna di comporre le visioni. È l’impegno, credo, di tutti i giorni».
Per sedici anni è stato la guida spirituale dei nostri lettori alla scoperta e alla comprensione del messaggio evangelico. Intellettuale a tutto tondo, raffinato biblista, educatore e rettore del seminario vescovile di Cremona, don Marco D’Agostino ha portato un importante contributo di conoscenza del Vangelo e del suo messaggio anche ai non credenti. Quella con il giornale è stata una collaborazione importante e proficua, per la quale merita il nostro più sincero e affettuoso ringraziamento. È stato un bel viaggio quello fatto insieme. Don Marco continuerà a dare il suo contributo attraverso i suoi ‘Pensieri liberi’.
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