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IL COMMENTO AL VANGELO

Cristo è la parola che si è fatta carne

E' urgente continuare a ripetere ai ragazzi delle nostre scuole che la differenza tra uno schiavo e un libero non sono solo le catene, ma anche il numero di parole che conosce

Don Paolo Arienti

21 Gennaio 2024 - 05:15

Cristo è la parola che si è fatta carne

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
Mc 1,14-20

Ci sono alcune narrazioni sorprendenti che ricordano la forza della parola. Si dice addirittura che di parole cattive, ingiuriose si può anche morire, come purtroppo le cronache anche recenti ci attestano. Come pure si dice che non ci può essere vera umanità se non quella che scaturisce da una benedizione pronunciata su una piccola vita, perché si riconosca amata. E questo perché la parola possiede un potere icastico straordinario: è capace di fissare tempi e modi, scava in profondità, immortala in una catena di significati passaggi vitali che, altrimenti, resterebbero muti e forse invisibili.

È bellissimo constatare come l’articolazione delle parole renda straordinaria l’intelligenza di un bambino: dare e dire il nome delle cose significa abitare il mondo, far affiorare con formidabile semplicità che cosa si nasconde nel profondo del reale, nelle sue connessioni, nel suo mistero. Ed è urgente continuare a ripetere ai ragazzi delle nostre scuole che la differenza tra uno schiavo e un libero non sono solo le catene, ma anche il numero di parole che conosce; e la dignità di esprimere il proprio potenziale e il proprio mondo interiore.

Alcune persone padroneggiano la parola al punto di farne una professione, a volte una missione. Immagino che sia stato così anche per Gesù di Nazareth, a tal punto che il cristianesimo lo definirà come la parola fatta carne. Come a dire: se Dio esiste ed in qualche modo desidera comunicare con l’uomo, l’umanità di Gesù è come il luogo in cui quella comunicazione si fa umana, grammatica sufficiente perché si stabilisca una connessione. In fondo è questo, oltre i codici religiosi, che le comunità cristiane rincorrono ogni domenica: poter ritrovare una parola salda, per cui valga la pena vivere.

Nel brano letto nelle chiese questa domenica la parola di Gesù è ponderosa ed efficace, affascina sino al punto di calamitare sconosciuti pescatori e costringerli a lasciare tutto e seguire il rabbi che l’aveva pronunciata. Marco, che ci consegna il Vangelo canonico più breve, scritto probabilmente per adulti aspiranti cristiani, gli mette in bocca diversi imperativi che si trasformano nella chiamata dei primi discepoli. Quegli imperativi rimbombano a terra come vere e proprie pietre: c’è un tempo pesante, dice Gesù, in cui tutto si compie, si riempie di senso; c’è un cambiamento di mentalità da operare, perché questa pienezza non vada perduta; è vicino addirittura il regno di Dio, categoria ebraica che evoca la vita vera, quella in cui non c’è spazio per la meschinità e la prepotenza.

Se Gesù parlasse ancora oggi, se un altro Marco ne mettesse per iscritto la profezia, forse termini e toni non muterebbero più di tanto: anche oggi ciascuno di noi vive l’occasione propizia per difendere la propria umanità, dentro mille, comprensibili fatiche; anche oggi è il tempo in cui teste aperte e pensanti possono cambiare la rotta della storia; anche oggi servono imperativi forti che scuotano il torpore di un quotidiano sbiadito; ed anche oggi serve che qualcuno o qualcosa passi accanto a noi e ci solleciti a sollevare la testa, respirare aria nuova e smettere di chiuderci nel nostro perimetro di solo lavoro, soli diritti, sole delusioni.

Per questo permanente bisogno di parole piene e vere, questo brano evangelico, divenuto l’icona stilizzata delle ‘vocazioni’, può parlare di me e di noi, anche se non ci riconosciamo immediatamente tutti credenti praticanti o camminiamo per strade collaterali alle vie ufficiali della fede. Che il mondo ci stia dicendo qualcosa di grande… che qualcuno ci possa interpellare riconoscendo che siamo gratuitamente destinatari di fiducia, che Dio stesso – per chi crede – giochi la carta di un amore così appassionato e rischioso… è una scoperta che vale la pena fare e rifare, davanti ad una parola che ci provoca: farò di te un pescatore di uomini. Dove pescare non ha nulla a che fare con imbrogliare o millantare, ma è sinonimo di salvare, sottrarre l’altro dall’annegamento, provare ad andare a riva insieme e condividere qualcosa di grande. Altro che impotenza. Altro che farsi i fatti propri. Marco annota che Gesù inizia a pronunciare queste parole pesanti appena dopo l’arresto di Giovanni Battista: forse perché se una parola giusta e grande viene messa a tacere dalla prepotenza, un’altra parola giusta e grande, che libererà la prostituta dalla lapidazione, il lebbroso dalla condanna sociale e il cieco dal buio… prenda il suo posto e continui il trasbordo verso riva, dove sarà più facile respirare e vivere.

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