L'ANALISI
DA STOCCOLMA
07 Giugno 2022 - 05:25
L'architetto Giorgio Palù
STOCCOLMA - Ogni nuovo progetto parte da zero. Come un articolo di giornale, nasce da una pagina bianca e arriva fino all’ultima riga (o alla sommità del tetto). La magia è creare ogni volta qualcosa di nuovo, anche se è inevitabile che le esperienze precedenti finiscano per condizionare le nuove: se una soluzione ha funzionato si tenderà a riproporla; se non è risultata efficace, si cercherà una strada diversa, ma senza dimenticare l’originale. Così si crea uno stile riconoscibile, un tratto distintivo, la ‘mano’ di un autore. Vale per i musicisti, per i pittori, per gli scrittori e naturalmente anche per gli architetti. Da Teheran a Ibiza, da Montecarlo a Stoccolma, il tocco dell’architetto cremonese Giorgio Palù è inconfondibile: linee pulite, giochi di luce, armonia delle forme, eleganza assoluta. E il coraggio di osare ciò che ai più sembrerebbe impossibile. Come le ‘case sospese’ di Cremona, appollaiate su trampoli di cemento, a un passo dal cielo, faccia a faccia con il Torrazzo. Una follia solo a pensarle. Eppure sono realtà.
Il segreto è innovare nella continuità. Adattarsi alla specificità dei luoghi. Giocare con i materiali, esaltare i contrasti. Puntare più in alto possibile e guardare sotto ground zero, per ricavare un museo nei sotterranei del palazzo vescovile. Modellare il legno come un nastro di seta e scolpire la pietra con tagli assoluti. Stupire con colori ad effetto e illuminare il buio con un sole raggio di sole.
A Stoccolma Giorgio Palù ha firmato il nuovo auditorium della Lilla Akademien, un capolavoro di architettura e tecnologia che sarà inaugurato questo pomeriggio alla presenza dei reali di Svezia e avrà un’insegna di prestigio: Queen Silvia Concert Hall. Sala concerti ‘Regina Silvia’.
Per progettarla, Palù si è ispirato alla sua opera più applaudita: l’auditorium ‘Giovanni Arvedi’ del Museo del Violino di Cremona. Ma poiché ogni opera è un pezzo unico, a Stoccolma è andato avanti, ha percorso nuove strade e ricercato nuove soluzioni. Soprattutto, si è lasciato contaminare dal contesto e dal gusto scandinavo.
Architetto Palù, ci sveli il suo segreto: come è riuscito a coniugare la vocazione musicale del progetto, la solennità del luogo e lo stile minimalista che caratterizza il design svedese? Stoccolma ha palazzi stupendi, è la capitale del Premio Nobel, ma è anche la città dell’Ikea...
«Una delle prime qualità di un architetto è la capacità di capire il genius loci: significa respirare la storia di un luogo e dopo aver assorbito la sua specificità trasformare la coscienza del passato in una visione del futuro. Solo così un progetto può dare risposte puntuali. In caso contrario, manca l’anima. E il risultato non è destinato a durare nel tempo».
Sono concetti filosofici elevati: come si mettono a terra in concreto?
«Confrontandosi con la committenza per trovare il giusto punto di equilibrio fra sogni, ambizioni, livello culturale e capacità economica. L’equilibrio instabile delle diverse forze in campo è una sfida affascinante, un match che si decide ai punti, non con un colpo di ko. Se c’è stima reciproca si crea un dialogo che permette di mediare eventuali divergenze e di trovare il punto di equilibrio e le soluzioni migliori grazie alla sensibilità e alla creatività dell’architetto».
Lei ha lavorato in tutto il mondo, è un progettista di fama internazionale, ma come si viene scelti per un progetto così importante? Ha vinto un concorso di idee o ha ricevuto una chiamata ad personam?
«In questo caso sono stato molto fortunato, perché la necessità di realizzare una concert hall a Stoccolma è emersa proprio nel momento in cui sul web e sulle riviste di settore giravano le immagini dell’auditorium del Museo del Violino di Cremona. Il mio progetto fu notato dal direttore scientifico e dal direttore artistico della Lilla Akademien e dal direttore del Conservatorio locale che stavano cercando un’idea per creare una sala concerti: per prima cosa sono venuti a Cremona per vedere la mia struttura dal vivo e per conoscere me come persona. Da lì, insieme, abbiamo iniziato un percorso lungo e complesso perché nella progettazione di una concert hall non c’è nulla di scontato: dalla forma della sala al design delle poltrone, ogni singolo dettaglio va pensato e studiato in profondità. Nulla può essere standard, tutto dev’essere speciale».
Più facile lavorare all’estero o in Italia?
(Sospiro) «Domanda complessa… Diciamo che ogni cultura esige risposte diverse, nello specifico ogni committente. A Cremona il Cavalier Arvedi mi ha permesso di realizzare un progetto di alto profilo, che non a caso ha poi conquistato importanti premi e riconoscimenti. Gliene sarò riconoscente per sempre. Senza quel progetto, probabilmente oggi non sarei qui. Questo vale a livello concettuale. Dal punto di vista operativo, invece, la mia esperienza mi porta a dire che all’estero c’è più libertà progettuale, ma quando si tratta di costruire fisicamente un’opera la capacità realizzativa più elevata si trova in Italia».
E la burocrazia? È un male italiano o… siamo in buona compagnia?
«Quando lavoro all’estero per questi aspetti mi appoggio a partner locali, perché inevitabilmente conoscono meglio le procedure e le norme specifiche del posto. Nel caso della Lilla Akademien il percorso è stato molto particolare, perché si è trattato di ristrutturare un edificio storico, soggetto agli stringenti vincoli della Soprintendenza locale. Da questo punto di vista, in Svezia ho trovato una burocrazia forse addirittura più lunga di quella che c’è in Italia».
È più stimolante costruire qualcosa dal nulla - ‘da campo verde’, come dice il Cavalier Arvedi ricordando la nascita della sua acciaieria - o rigenerare, ristrutturare, rifare qualcosa che già esiste e va ammodernato, riorganizzato, adeguato alle nuove norme e alle nuove esigenze?
«Si tratta di due sfide diverse, ma entrambe molto affascinanti. In teoria è meglio partire dal foglio bianco. In realtà il foglio bianco non esiste, perché ci sono tante regole da rispettare. Non a caso io ripeto sempre che l’architettura è una forma d’arte a libertà vigilata. Non c’è libertà assoluta, ma sempre contaminata, mediata dalle necessità funzionali: l’esigenza primaria è quella».
Dovesse spiegare il suo stile progettuale, come lo definirebbe?
«Mi collego alla risposta precedente: lo ‘stile Palù’ è fortemente legato agli aspetti funzionali di un’opera, perché un progetto bello ma non funzionale non ha senso di esistere. Il punto di partenza è questo, accettando la sfida della contemporaneità, ma con un occhio sempre proiettato al futuro, come dimostra proprio la Queen Silvia Concert Hall: con la committenza svedese ho condiviso la scelta di coniugare il legame profondo con la storia dell’Accademia e la ricerca di nuove forme di performance musicali, sia per chi suona sia per chi ascolta».
In architettura vince chi osa di più o chi sbaglia di meno?
«Entrambe le cose. Sbagliare è gravissimo, in primo luogo perché lo si fa sulla pelle degli altri, tradendo la fiducia del committente che investe rilevanti energie intellettuali ed economiche. Non si possono anteporre le ambizioni estetiche dell’architetto alle esigenze cui si deve dare risposta. D’altro canto, bisogna avere la consapevolezza che l’architettura è una forma d’arte e, come tale, dev’essere in grado di anticipare nuove tendenze sociali, creando nuovi luoghi, nuove forme di aggregazione e nuovi stili di vita. Un buon architetto è una sorta di medium, portatore di una lunga storia, in grado di anticipare il futuro che verrà, cercando di intuire le nuove necessità dell’uomo e della società. Basta guardarsi attorno: le case stanno cambiando, gli uffici stanno cambiando, anche le città lo stanno facendo, perché hanno capito che devono crescere in termini di densità anziché in estensione. Non sempre si ha il coraggio di osare, ma crescere in altezza è l’unica possibilità per ridurre il consumo del suolo. La gente vuole vivere insieme e assecondare questo desiderio è un modo sano per far crescere la società».
Conosce ArchiTerror?
«No».
È un sito che segnala le oscenità progettate dai suoi colleghi più fantasiosi: palazzi a forma di caffettiera, ristoranti che sembrano un würstel, edifici rovesciati con il tetto in basso e il giardino sul soffitto… La voglia di stupire a volte gioca brutti scherzi?
«Sicuramente sì, ma un architetto deve sempre capire dove sta il limite. Deve rispettare la cultura altrui, senza stupire a tutti i costi. Io, quanto meno, non sento questa necessità. Le mie opere possono non piacere, ovviamente, ma sono convinto di lavorare sempre in modo etico, coerente, professionale: sì alla creatività, ma solo se è un valore aggiunto, portato con garbo, coraggio e coscienza. Le architetture del passato conservano un grande fascino a distanza di secoli perché hanno un’anima profonda, che nel caso delle ristrutturazioni deve evolversi, adattarsi alle nuove necessità, ma non essere stavolta. In una logica circolare l’eredità della storia non deve cristallizzarsi e mummificare, ma deve evolversi per poter essere vissuta in modo più contemporaneo. Torno alla domanda ‘meglio il foglio bianco o la struttura da rileggere’: ovvio che per lasciare il gesto dei gesti sarebbe bello lavorare senza limiti e senza budget, ma la vera scommessa è sapere leggere con sensibilità spazi che hanno una storia e una cultura e dar loro una seconda possibilità di vita senza sfigurarli».
Il pubblico a volte fatica a capire le scelte di un progettista: anni fa, per esempio, molti automobilisti si chiesero come i designer della Fiat potessero aver prodotto un’auto come la Duna. Ci avranno lavorato in tanti e per anni: possibile che nessuno si fosse mai accorto di quanto fosse triste e disarmonica? Dov’è mai scritto che un’utilitaria a basso costo debba per forza essere brutta?
«Da nessuna parte. Una delle più grandi sfide è fare buona architettura con un budget limitato. Quando un progetto è forte, leggibile e funzionale ha una sua potenza intrinseca, senza aver bisogno di ricorrere a materiali preziosi. Povero non deve voler dire per forza brutto, anche se è chiaro che brutto e bello sono giudizi sempre opinabili. Per me, per esempio, portare bellezza significa offrire al fruitore delle mie opere un senso di pace, rilassatezza e protezione. Questo non necessariamente avviene con i progetti più ricchi. Lo abbiamo visto all’inizio in Medio Oriente o in Cina: le prime architetture dei nuovi ricchi erano di una volgarità inimmaginabile, oggi non è più così».
Torniamo alla Queen Silvia Concert Hall: quali sono state le linee guida del progetto? Da dove è partito?
«Dalla condivisone degli obiettivi con i committenti: fin dall’inizio abbiamo pensato a uno spazio in grado di soddisfare diversi tipi di performance, a partire dal tema del conservatorio. La sfida è stata coniugare due esigenze contrapposte: la necessità di ospitare performance di un solista o di un’orchestra al più alto livello e i bisogni quotidiani degli studenti della scuola di musica. Grazie alla sua flessibilità la Concert Hall vivrà ogni giorno. Se questa era la sfida funzionale, dal punto di vita poetico e concettuale l’obiettivo era creare una sala fortemente ispirata al senso di continuità e di fluidità. Per raggiungere questo obiettivo ho pensato al nastro usato dalle ginnaste della danza ritmica, alla sua elegante leggerezza e all’armonia dei suoi movimenti. A questi aspetti si è sommata l’idea di creare una sala molto intima, in cui studenti, musicisti e pubblico potessero essere avvolti dallo stesso suono e condividere le stesse emozioni. Nelle strutture teatrali tradizionali il pubblico è da una parte e il musicista dall’altra e questo crea inevitabilmente una barriera. Il nostro obiettivo, al contrario, era creare uno spazio democratico, orientato a uno scambio continuo di emozione e di energia. Come a Cremona, nella concert hall di Stoccolma tutti gli attori sono vicini, intimi, in una dimensione quasi onirica. Da qui la scelta di volumi morbidi e di balconate che sembrano appese in cielo, in una sala in cui tutti i punti sono connessi l’uno con l’altro per creare un grande abbraccio che avvolge musicisti e spettatori in un’unica esperienza sensoriale. Questo è l’elemento dominante della sala, determinato anche dai colori, che variano dall’oro al bronzo per ricordare gli ottoni delle orchestre. Ma in una tale armonia c’è anche un elemento volutamente dissonante: le due pareti di fondo, che sembrano… non esistere. Il mio sogno era dare la sensazione di trovarsi immersi nella natura circostante: da un lato la vista aerea dell’arcipelago di Stoccolma; dall’altro una luce fredda, nordica, simile all’aurora boreale, grazie a isole in acciaio lucido specchiato che generano riflessi e interazioni fra pubblico e spettatori. Come nelle composizioni musicali ci sono i legati e le fughe, nel bel mezzo della melodia arriva un elemento dissonante, con un ritmo sincopato, qui le quinte di chiusura diventano visioni scenografiche improvvise e inaspettate. E le balconate sembrano danzare all’interno della sala, priva di due pareti, per esaltare e riaffermare in genius loci. Il messaggio è inequivocabile: sono a Stoccolma e la mia anima artistica si può realizzare solo qui. Perché ho frequentato questa scuola, ho vissuto la tipicità di questa città, mi sono calato nella realtà locale; perché senza un topos, un luogo di appartenenza, un progetto non è reale, ma diventa mera utopia».
Qual è stato il ruolo di Nagata Acoustic?
«Come già a Cremona, la consulenza acustica di Yasuisha Toyota e Marc Quiquerez mi ha aiutato a coniugare necessità funzionali e bellezza. Un’altra scelta forte è stata l’idea di ‘spostare’ il foyer in alto: qui, la tradizionale ‘anticamera’ non si trova sullo stesso piano della scena, come in ogni teatro, ma al piano superiore, dove c’è la scuola di musica. Questa soluzione permette di raggiungere un duplice obiettivo: da un lato, trasforma il foyer in uno spazio polivalente, utile come sala per le prove o per piccole performance sperimentali degli allievi del Conservatorio; dall’altro offre al pubblico un nuovo percorso di avvicinamento alla sala concerti. Grazie a un grande ascensore, ogni spettatore sale al foyer e poi inizia a scendere lungo una passeggiata che gli offre una visione panoramica dell’insieme e lo fa entrare progressivamente in sintonia con l’ambiente e lo spirito dell’evento musicale cui parteciperà».
In fase progettuale la sostenibilità è una necessità, un limite o un’opportunità?
«La sostenibilità economica è un presupposto ineludibile; la sostenibilità ambientale un approccio etico. Questo progetto, per esempio, prevede l’impiego di materiali naturali, in particolare il legno di pino svedese, sia per il pavimento sia per il rivestimento delle pareti. Inoltre, nell’allestimento degli arredi non abbiamo usato colle o prodotti chimici. E le uniche strutture metalliche sono quelle delle balconate per evidenti necessità strutturali».
A differenza di tanti palcoscenici tradizionali, nati ‘analogici’ e poi adattati alle nuove tecnologie, la sala concerti della Lilla Akademien è nata digitale, fin da subito è stata pensata per essere interconnessa. Come cambia la progettazione da questo punto di vista?
«La tecnologia è sempre un valore aggiunto, mai un limite, perché aiuta gli architetti a far crescere la qualità dei propri edifici. Non necessariamente va nascosta, ma diciamo che meno si vede e più è bella, perché crea una sorta di magia, garantendo la fruizione più pura e pulita. La Queen Silvia Concert Hall sarà in grado di trasmettere in tutto il mondo le performance che ospiterà, ma permetterà anche agli allievi della scuola di musica di seguire in tempo reale e secondo gli standard più elevati le lezioni, le prove e i concerti in programma nei teatri e nei conservatori dell’intero pianeta. Una simile connessione, per certi versi, avvicina la Svezia al resto del mondo, compensando la sua posizione geografica piuttosto periferica».
A proposito di nuove tecnologie: voi architetti usate ancora il tecnigrafo o tutto ormai si crea al computer?
«Io lavoro solo con la matita o la stilografica. Faccio schizzi, che poi il mio studio trasforma sul computer in lavorazioni tridimensionali. Gli strumenti di lavoro sono cambiati, il progresso è prezioso, ma devo ammettere che il passato un po’ mi manca. Com’era bello lavorare con i pennini, scegliendo di volta in volta lo 0,1 o lo 0,3, lo 0,5 o lo 0,7, se non addirittura lo 0,9 per i tratti più importanti! Una volta c’era una relazione fisica con il disegno: penso banalmente alla fatica che si faceva per disegnare su lucido formato A0, alto 90 centimetri e di lunghezza infinita, anche oltre i due o i tre metri. Oggi con il disegno c’è un rapporto più virtuale».
Però, i bozzetti disegnati su un tovagliolo, quando arriva l’ispirazione, esistono ancora…
«Assolutamente sì! Per quanto mi riguarda, l’idea primigenia nasce sempre così, poi serve un lavoro lunghissimo, seguono mille correzioni, mille riunioni, mille confronti con la committenza. E resta sempre lo spazio per una piccola deviazione in corsa, il guizzo che spesso determina il successo di un progetto. Come le fughe improvvise di Bach nella musica. In questo caso il guizzo è arrivato subito ed è stato aver condiviso con la committenza gli aspetti concettuali dell’opera che volevamo realizzare ancor prima di tirare la prima riga».
Il ‘Made in Cremona’ vale solo per il progetto o ha contribuito anche alla sua realizzazione?
«Il progetto è cremonese al 100%. Oltre ai miei collaboratori di ufficio, hanno dato un contributo importante anche Steel Group e Form, due realtà del nostro territorio che hanno fisicamente realizzato le quinte scenografiche».
In più c’è una scultura speciale…
«Quasi alla fine del percorso mi è stato chiesto di realizzare un’opera scultorea che fosse in grado di rappresentare simbolicamente l’idea portante del progetto. Ho creato una scultura che si rifà agli schizzi originali ed esprime in modo poetico la circolarità e l’evoluzione del pensiero architettonico e lo spirito musicale che osmoticamente si fondono in un’unica entità. Per richiamare il nastro delle danzatrici ho utilizzato elementi ad andamento sinuoso e curvilineo che sembrano galleggiare nell’aria, in apparente assenza di gravità. In realtà, alle estremità sono vincolati ad anelli di marmo che ricordano le forme degli antichi teatri greco romani. L’opera è stata installata e resterà perennemente esposta nei corridoi di ingresso alla sala, accanto al monolite in granito nero in cui sono incisi i nomi dei finanziatori del progetto, a partire dal capofila Stephan Person, presidente e figlio del fondatore di un’eccellenza svedese come H&M».
Finita la Queen Silvia Concert Hall, a quale nuovo progetto sta lavorando l’architetto Palù?
«Ho tanti progetti in lavorazione in ambito privato e residenziale».
Ha mai progettato un ospedale?
«No, ma anche questo è un tema affascinante, con il quale mi piacerebbe confrontarmi, per la valenza sociale e di relazione di un simile progetto».
A Cremona sta per partire il bando per il nuovo ospedale Maggiore, un’operazione da 350 milioni di euro: lei parteciperà con una sua proposta?
«Cercherò di capire quali sono le modalità di partecipazione all’eventuale concorso: se le riterrò compatibili con il mio modo di lavorare e di intendere l’architettura, farò una mia proposta».
Il committente pubblico è diverso dal privato?
«A questa domanda non so rispondere perché finora non ho mai avuto commesse pubbliche di particolare rilevanza».
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