L'ANALISI
OMICIDI COLPOSI IN CORSIA
10 Maggio 2023 - 21:33
Mario Martinotti
CREMONA - Omicidi colposi in corsia. Il pm Davide Rocco ha chiesto di condannare a 1 anno di reclusione («pena equa») Mario Martinotti, l’ex primario di Chirurgia dell’ospedale Maggiore, per il decesso di Pasquale Dornetti, 78 anni, agricoltore di Credera Rubbiano, operato per l’asportazione di un tumore al fegato, morto per «episodio acuto cardio vascolare» il 14 luglio del 2017. E chiede di condannarlo a 1 anno di reclusione («pena equa») anche per la morte di Renza Maria Panigazzi, 75 anni, pensionata di Voghera, finita sotto i ferri per l’asportazione di una ciste benigna al pancreas, morta il 7 febbraio del 2019.
«Interventi inutili che non si dovevano fare, ma che portarono al decesso dei pazienti», per il pm, secondo il quale c’è il nesso causale tra gli interventi chirurgici e la causa della morte. Nesso che non sussiste, al contrario, per la difesa Martinotti, passata al contrattacco, chiedendo di mandare assolto l’ex super primario, natali a Pavia, 66 anni, per 13 (dal 2007 al 31 dicembre del 2019), capo del reparto.
Una maratona, l’udienza di oggi dedicata alle conclusioni, iniziata alle 9 del mattino e chiusa nel tardo pomeriggio. Martinotti era in aula.
Nel settembre del 2016, a 77 anni, l’agricoltore scopre di avere un tumore al fegato: una massa di 12 centimetri in una brutta posizione. È al centro del fegato, organo tra i più irrorati e vicino alle vie biliari. A settembre Dornetti si sottopone alla chemioembolizzazione: si inietta la chemio direttamente nell’arteria epatica. La terapia dà risultati: la massa si riduce da 12 a 8 centimetri. A febbraio del 2017, l’agricoltore chiede un parere al primario dell’Unità operativa Chirurgia epato-biliare del San Raffele di Milano, centro d’eccellenza internazionale. Dopo un consulto «multidisciplinare», il responso: «Meglio non operare, troppo rischioso».
Il rischio? «La massa è vicina ai dotti biliari». Dornetti sente il parere del primario Martinotti, per il quale l’operazione è, invece, indicata. Sotto i ferri il paziente ci finisce il 30 giugno. Il decorso post operatorio procede bene, poi la complicanza: perdita biliare. Di «lesioni biliari nell’area manipolata dal chirurgo», parla il pm. Il 10 luglio, l’agricoltore viene riportato in sala operatoria: l’intervento è urgente. Viene drenato, si riprende, ma il 14 luglio, all’improvviso muore per arresto cardiovascolare.
«La condotta colposa riguarda l’opportunità o meno dell’intervento, non come è stato fatto».
Per il pm, l’alternativa c’era. Ad esempio, «un’altra chemioemboizzazione avrebbe dato un buon risultato, poi si poteva decidere un approccio chirurgico». Ma anche «la medicina ha avuto evoluzioni farmacologiche. Martinotti cosa fa? Per demolire il tumore, opera. Ha sottoposto il paziente ad un intervento che non doveva fare. Era liberissimo di prendere le proprie scelte, non doveva chiedere al San Raffaele, ma per quella libertà di scelta si trova a processo. Le scelte di Martinotti si sono dimostrate carenti sotto il profilo della prudenza».
L’avvocato di parte civile, Mario Palmieri, legale della vedova e del figlio di Dornetti, tira fuori, a sorpresa, «intercettazioni sconcertanti». Ed è un ‘colpo basso’ per la difesa, perché nel processo Martinotti le intercettazioni «sono inutilizzabili». Ma Palmieri tira dritto e racconta di una intercettazione (riversata negli atti di indagine della Guardia di Finanza) in cui «Martinotti si lamenta della scarsità di interventi per determinate patologie tumorali. Dice: ‘È un periodo grigio’. Non può non sorgere il sospetto che si sia osato più del lecito, correndo rischi che in altre situazioni non si sarebbero corsi», la butta lì Palmieri, il quale chiede 300mila euro di risarcimento per la vedova, 250 mila per il figlio.
L’avvocato Luigi Fornari e il professor Carlo Enrico Paliero, difensori di Martinotti, passano al contrattacco, forti delle conclusioni del pool di luminari messi in campo, secondo i quali Dornetti andava operato Luminari come Marco Filauro, primario al Galliera di Genova: «Il San Raffaele ha detto che l’intervento era troppo rischioso per le indicazioni vascolari. Non ha parlato di vie biliari. Il tumore comprimeva la zona, era sulla biforcazione biliare. Ciò può aver provocato un indebolimento delle pareti delle vie biliari non addebitabile all’operato del chirurgo».
Dopo il secondo intervento, Dornetti migliora, ma «ahimé, c’è la complicanza finale, inaspettata: la morte per arresto cardiovascolare che nulla c’entra con tutto questo».
L’avvocato Diego Munafò, chiamato in causa come responsabile civile, dice: «L’alternativa è non operare il paziente, lasciandolo al suo destino? L’alternativa è lasciare progredire il tumore in un paziente per il quale 2-3 anni di vita sono importanti?».
Il 3 dicembre del 2018 la pensionata viene operata al Maggiore per un cistoadenoma: un tumore benigno alla testa del pancreas. Il post operatorio è complicato a causa dell’insorgenza di un ascesso epatico, poi drenato. Il 14 gennaio del 2019 la paziente viene dimessa: va a fare riabilitazione all’ospedale di Varzi (Pavia) dove accade «un evento imprevedibile» per la difesa: un ematoma alla coscia. La signora viene trasferita al Policlinico San Matteo di Pavia: il 7 febbraio va in arresto cardio-respiratorio e muore.
«La ciste era benigna, non sintomatica. Non era necessario asportarla. Per la difesa poteva diventare maligna? La si teneva monitorata», dice il pm. Per i periti della difesa, «l’ematoma alla coscia è un evento imprevedibile in una zona anatomica che nulla ha a che vedere con l’intervento. La signora ha sviluppato qualcosa di autonomo: l’ematoma non è in nesso causale con l’intervento». «Si va a caccia della colpa e la colpa è l’intervento chirurgico», sottolinea il professor Paliero, mentre Munafò evidenzia: «Ci sono medici, come Martinotti, che ritengono di fare tutto quello che è possibile nelle linee guida per dare una chance al paziente. Altri medici optano per la medicina palliativa, difensiva».
Il pm Davide Rocco ha chiesto di assolvere l’ex primario Martinotti dall’accusa di omicidio colposo in relazione alla morte, il 12 marzo del 2015, di Giuseppina Zanardi, 75 anni: il reato si è prescritto. E ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo di Renzo Tanzini, 51 anni, deceduto a Ferragosto del 2016, per «assenza di prove che un diverso comportamento del primario avrebbe potuto evitare il decesso».
Era il caso più delicato. Sfortunato, Tanzini. All’età di 35 anni viene operato per un cancro all’intestino e gli tolgono un pezzo di colon. Si scopre che ha la sindrome di Lynch, patologia genetica ereditaria che aumenta il rischio di sviluppare tumori come il cancro del colon. Nel 2016, un’altra batosta: Tanzini ha un tumore al duodeno che ha già infiltrato il pancreas. E un polipo al colon, al quale, però, non si fa la biopsia. Il polipo risulterà poi benigno.
Il primario Martinotti opta per fare contemporaneamente due interventi invasivi: una duodenocefalopancreasectomia e una colectomia. L’8 giugno del 2016, Tanzini viene portato in sala operatoria: otto ore di intervento, ma qualcosa va storto. L’intestino cambia colore, va in sofferenza ischemica. È un campanello d’allarme sulla interruzione del circolo sanguigno, una occlusione trombo-embolica all’arteria e alla vena mesenterica. Tanzini subirà altri sedici interventi prima di morire.
L’avvocato di parte civile, Guido Giarrusso, legale del fratello di Tanzini, si è battuto per dimostrare la responsabilità di Martinotti. «La biopsia al polipo andava fatta: la lesione era benigna e, quindi, i due interventi demolitivi non andavano associati, perché davano una altissima percentuale di morte».
Tanzini è poi andato incontro «a 16 interventi». L’avvocato ha parlato di «agonia». E chiesto di condannare l’ex primario a 222mila euro di risarcimento danno .
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