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Processo Martinotti: le asporta tumore benigno, muore per «un’altra causa»

L'ex primario si sta difendendo dall'accusa di tre omicidi colposi. I periti della difesa: «Non c'è il nesso tra l'intervento e il decesso»

Francesca Morandi

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fmorandi@laprovinciacr.it

02 Novembre 2022 - 19:15

Processo Martinotti: le asporta tumore benigno, muore per «un’altra causa»

Mario Martinotti con il professor Carlo Enrico Paliero e l'avvocato Luca Curatti

CREMONA - «Non c'è nesso. Il 3 dicembre del 2018 Renza Maria Panigazzi, 75 anni, viene operata all’ospedale Maggiore per un cistoadenoma, ovvero un tumore benigno alla testa del pancreas. Il post operatorio è complicato a causa dell’insorgenza di un ascesso epatico, poi drenato. Il 14 gennaio del 2019 la paziente viene dimessa: va a fare riabilitazione all’ospedale di Varzi (Pavia) dove accade «un evento imprevedibile»: un ematoma alla coscia. La signora viene trasferita al Policlinico San Matteo di Pavia dove il 7 febbraio va in arresto cardio-respiratorio e muore.

C’è un «nesso causale» tra l’intervento fatto all’ospedale di Cremona con complicazione e il decesso della paziente a Pavia? «Non c’è». Ne è certo il professor Marco Filauro, luminare nel campo della diagnostica e terapia delle neoplasie epatobiliari e pancreatiche, della chirurgia mini invasiva applicata alla patologia dell'apparato digerente. Direttore del dipartimento all’ospedale Galliera di Genova, Filauro è (stamane) in Tribunale a Cremona con il collega Lorenzo Polo, medico legale a Pavia, entrambi consulenti tecnici della difesa di Mario Martinotti, 65 anni, per 13 (fino al 31 dicembre del 2019) primario di Chirurgia generale al Maggiore. Martinotti si sta difendendo dall’accusa di tre omicidi colposi (un quarto si è prescritto).

In aula si approfondisce il caso Panigazzi: Filauro e Polo si confrontano con i consulenti tecnici della Procura: Andrea Verzeletti, medico legale al Civile di Brescia, e Gianluigi Melotti, già primario chirurgo a Modena, ora in pensione e libero professionista.

PRIMO NODO

Nel 2016, la 75 enne scopre di avere la lesione al pancreas. L’occhio clinico dell’endoscopista la rassicura: il tumore è benigno. Non si fa un ‘agoaspirato'. Per due anni, la paziente viene monitorata, la cisti si ingrossa: diventa una palla che preme sul duodeno. Il primario Martinotti decide per l’intervento, asporta il pancreas.

Primo nodo. Era il caso di intervenire chirurgicamente visto che il tumore era benigno?

Per Melotti no: «Una premessa: in letteratura ci sono 25 casi al mondo di lesione che si è trasformata in cancro. La possibilità di trasformarsi in cancro era bassissima. Avrebbero dovuto fare un esame istologico prima. Nella documentazione clinica non ho trovato traccia di una discussione collegiale che motivi su che base sia stata presa la decisione chirurgica. Era una lesione benigna. Inoltre, la paziente era asintomatica. Si opera se il fegato è compresso dalla massa e viene l’ittero, se il duodeno è compresso e non si riesce più a magiare. Nel caso della signora, in cartella clinica non c’è traccia di alcuna sintomatologia anche se attraverso l’esame si vede un promontorio dove lo stomaco appoggia su questa palla, ma non c’erano organi vicini compressi. In assenza di sintomi, la letteratura medica è tassativa e quasi unanime: non si opera. Ci vuole una bella motivazione per operare».

Filauro ribatte: «Intanto, era una cisti muccinosa. Nel 2018 l’ispessimento delle pareti era significativo. L’effetto compressivo sui vasi è inevitabile. L’endoscopia rileva una compressione sul duodeno. E non è vero che la paziente era asintomatica. Il figlio aveva detto che la mamma non stava bene».

Filauro cita studi sui tumori benigni al pancreas: da quello «importante» di Boston al «lavoro importantissimo» fatto nel 2020 dal gruppo di Verona, leader a livello mondiale».

La cisti nei due anni era aumentata di dimensioni. «Una crescita molto importante — sottolinea il luminare—. Verona dice 2.75 millimetri all’anno, nel caso della signora, in sei mesi la cisti era cresciuta di 4.1 millimetri al mese. La lesione era sospetta, andava operata. L’intervento era fortemente consigliato con il consenso del paziente». La signora era, dunque, «candidata all’intervento».

SECONDO NODO

Secondo nodo. Il 4 dicembre insorge la complicanza: una ischemia al fegato. La causa? Una trombosi dell’arteria epatica. Il radiologo interventista non può fare niente. L’arteria è chiusa. Come si è verificata l’ischemia del fegato che ha causato un ascesso epatico?

Per Melotti, «essendo il tumore una palla nella testa del pancreas, non può che appoggiare sulla vena porta che diventa ischemica dopo che ci mette mano il chirurgo».

Secondo Verzeletti, «è impensabile pensare ad una trombosi spontanea. Che ci sia un nesso tra la trombosi e l’intervento è indubbio». Filauro replica: «Non c’è alcun segno che sia stata provocata da un gesto del chirurgo».

Il 13 dicembre, prosegue Verzeletti, «il quadro clinico peggiora: versamento polmonare, versamento pleurico, un quadro di sepsi. La signora viene portata in Rianimazione e stabilizzata tanto che il 14 dicembre viene trasferita in reparto».

Il 21 dicembre il drenaggio: «Si cerca e in parte si raccoglie il materiale dell’ascesso». Se per Melotti e per l’accusa, andava fatta una epatectomia, viceversa, secondo Filauro: «non è indicata; la prima indicazione è procedere con il drenaggio che non è invasivo. Nel caso della signora, il drenaggio risolve completamente il problema. Tant’è che il 14 gennaio viene dimessa senza terapia antibiotica. Se hai una sepsi, dai gli antibiotici. L’ascesso non c’era più, si era risolto».

Ma per Verzeletti, «dire che alle dimissioni la situazione era completamente risolta, non si può sostenere».

Dopo le dimissioni, la paziente va all’ospedale di Varzi per la riabilitazione. E qui «accade un evento imprevedibile: un vasto ematoma al fianco destro», sottolinea Filauro. Il 5 febbraio la paziente viene trasfusa con due sacche di sangue, l’indomani viene trasferita al Policlinico San Matteo di Pavia.

«L’Angiotac conferma l’ematoma alla coscia destra e i liquami al lobo del fegato. Si conferma un’anemia significativa. La signora viene trasfusa con due sacche, il quadro sembra stabile», dice Verzeletti. Alle 6.13 del 7 febbraio la paziente «è stabile», ma in un’ora la situazione precipita: alle 7.28 è in arresto cardio-respiratorio e muore.

Per i periti del pm, «un ruolo significativo lo ha avuto lo stato di infiammazione cronica legato all’ascesso parzialmente drenato il 21 dicembre».

Filauro rimarca che «l’ematoma alla coscia è un evento imprevedibile in una zona anatomica che nulla ha a che vedere con l’intervento». Polo sottolinea «la variabile temporale». E conclude: «La signora ha sviluppato qualcosa di autonomo: l’ematoma non è in nesso causale con l’intervento».

In aula si tornerà il 19 aprile e il 3 maggio del 2023 per le conclusioni, poi il giudice indicherà il giorno della sentenza.

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