L'ANALISI
25 Maggio 2022 - 20:47
L'ex primario Mario Martinotti
CREMONA - La chirurga, il primario vicario di Gastroenterologia ed endoscopia digestiva, l’oncologo e il radiologo. Sono i medici chiamati oggi sul banco dei testimoni dalla difesa di Mario Martinotti, 65 anni, per 13, dal 2003 a fine 2019, primario di Chirurgia generale accusato di quattro omicidi colposi (dal 2015 al 2019). In aula si affronta il caso di Pasquale Dornetti, agricoltore di 78 anni, casa a Credera Rubbiano. Nel 2016 si ammala di tumore al fegato. Da 34 anni, Gabriele Rozzi è radiologo al Maggiore. «All’ospedale ho portato e da 28 anni pratico la radiologia interventistica», dice.
Dornetti «è un paziente che arriva alla nostra osservazione nel 2016». Ha una massa tumorale al fegato di 12 centimetri in una posizione brutta. L’intervento si esclude. Dopo la «valutazione multidisciplinare» si decide per la chemioembolizzazione: l’instillazione direttamente in loco, nei vasi epatici, di un farmaco chemioterapico. «La chemioembolizzazione è considerata non radicale, ma palliativa, ha un intento di controllo», spiega Rozzi. Lo conferma Gianluca Tomasello, oncologo ora al Policlinico di Milano, prima al Maggiore. Il tumore si riduce da 12 a 8 centimetri. Dornetti chiede un consulto al primario del San Raffaele che gli sconsiglia l’intervento, perché «molto rischioso». Sente il parere di Martinotti, che decide per l’intervento.
Ilaria Benzoni ha 37 anni, da cinque lavora in Chirurgia generale al Maggiore. «Me lo ricordo bene il caso Dornetti», dice. «Un caso particolare, un caso discusso più volte con il gruppo multidisciplinare. All’interno dell’équipe, nessun dubbio sulla sua operabilità». Se la chemioembolizzazione è un palliativo, «l’intervento chirurgico è l’unico che ha intento curativo, è l’unica chance che si può dare per uscirne». In sala operatoria c’è anche lei il 30 giugno. «L’intervento è riuscito molto bene, la massa tumorale è stata asportata completamente». E sempre lei segue il paziente nei primi giorni del post operatorio. Insorge una complicanza: «Una lacerazione della via biliare al peduncolo epatico che causa uno stato settico al paziente», dice l’accusa. La chirurga parla di «fistola biliare». Dice: «Capita spesso». E «spesso si risolve naturalmente». Non nel caso di Dornetti. «I colleghi endoscopisti gli hanno messo una protesi per drenare la bile all’interno». Ma qualcosa non va per il verso giusto. Dornetti sta male, la perdita di bile aumenta. Gli si mette un tubo per drenare la bile, stavolta all’esterno. Dornetti va in Rianimazione, muore «in seguito ad un episodio acuto cardio-vascolare», per l’accusa.
«In presenza di un’alta rischiosità, si è deciso di operarlo. Lei ha letto il referto del San Raffaele, lei ha visto che la morte è avvenuta perché si è concretizzato il rischio?». L’avvocato di parte civile Mario Palmieri viene stoppato e, allora, passa al consenso informato «visto che era un intervento a rischio». La chirurga risponde: «Io ero in stanza. Martinotti gli ha spiegato in maniera molto chiara, anche alla presenza della moglie, gli ha parlato in termini semplici: ‘Guardi che può andare incontro a complicanze e alla morte’». Anziché portarlo sotto i ferri per una «operazione rischiosa», non sarebbe stata più opportuna una seconda chemioembolizzazione? «Bisogna tenere conto che il chemiofarmaco è un veleno — spiega Rozzi —. Già la prima volta aveva dato tossicità midollare: riduzione di globuli bianchi, di globuli rossi e di piastrine che può portare ad anemia, infezioni. Si è risolta dopo qualche settimana. Bisogna tenerne conto. Sarebbe potuto riaccadere. È come cancellare la lavagna e ripartire da zero».
Si passa al caso di Renzo Tanzini, 51 anni. Se lo ricorda molto bene Roberto Grassia, primario vicario di Gastroenterologia ed endoscopia digestiva. «Un caso particolare, un giovane con una storia clinica che ti resta impressa: aveva la sindrome di Lynch». All’età di 35 anni, Tanzini va sotto i ferri per un cancro al colon. Gli tolgono un pezzo di colon (sinistra). Poi si scopre che ha la sindrome di Lynch, patologia genetica ereditaria che aumenta il rischio di sviluppare tumori come il cancro del colon. Nel 2016, gli viene diagnosticato un tumore al duodeno che ha già infiltrato il pancreas. Grassia, sapendo che ha la sindrome di Lynch e che deve fare l’intervento programmato al duodeno, gli fa la colonscopia. L’esame rileva una lesione neoplastica di 4 centimetri superficiale alla parte di colon che gli è rimasta. Meglio toglierla, anche perché la possibilità che dopo un anno diventasse maligna era «molto alta». «Non poteva togliersi endoscopicamente, la soluzione era chirurgica».
Ed ecco il punto. Martinotti decide di fare i due interventi insieme. Il primo è molto invasivo: viene tolto tutto il duodeno, la testa del pancreas, la colicisti e un pezzo di stomaco. Il secondo è invasivo: viene rimosso il pezzo di colon che gli è rimasto. Durante l’intervento insorge la complicanza: una sofferenza ischemica dell’intestino tenue. Il paziente viene «chiuso». Si fa una Tac. Poi si chiama Rozzi, che gli fa un’angiografia, ma l’ischemia ha già compromesso il quadro intestinale, secondo l’accusa. Tanzini sarà operato altre sedici volte. Morirà a Ferragosto. «Non sarebbe stato meglio separare i due interventi?», rilanciano il pm Davide Rocco e l’avvocato di parte civile Guido Giarrusso. «Farli insieme era una opportunità, anziché un limite. Opportunità nel senso che c’era un rischio di peggioramento della lesione», spiega Grassia. Per il pm e Giarrusso l’Angiotac si sarebbe dovuta fare già in sala operatoria.
Si parla del caso di Maria Panigazzi, 75 anni. Il 3 dicembre 2018 va sotto i ferri per una lesione cistica alla testa del pancreas. L’intervento, la complicanza. Viene chiamato Rozzi per per liberare un’arteria. «Lo faccio senza risultatoi valido, purtroppo». passa qualche giorno, altra Tac. «Si vede che c’è un ascesso. Lo dreno, la situazione clinica migliora, il drenaggio viene rimosso, la paziente va in un’altra struttura nel pavese. So che ha avuto una complicanza emorragica alla coscia e al gluteo, un quadro patologico nuovo, un distretto anatomico diverso. Non vedo il legame con l’intervento». Il 7 febbraio la morte per «grave stato settico». Il caso di Giuseppina Zanardi, 75 anni, ieri non è stato trattato. L’11 marzo 2015 le viene asportata una lesione pancreatica. L’accusa dice che Martinotti procede «con grande imprudenza con la duodenocefalopancreasectomia, intervento di chirurgia addominale più complesso, cagionando una massiva emorragia alla paziente, uccisa da un’infezione». Il 13 luglio parleranno i periti del pm, delle parti civili e e della difesa (gli avvocati Carlo Enrico Paliero, Luca Curatti, Luigi Fornari).
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