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IL PROCESSO

Caso Martinotti: in aula è «scontro» fra periti

I pazienti andavano operati? Un confronto serrato di cinque ore tra chirurghi di fama. La Procura lo accusa di omicidio colposo

Francesca Morandi

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fmorandi@laprovinciacr.it

13 Luglio 2022 - 19:31

Caso Martinotti: in aula è «scontro» fra periti

Mario Martinotti

CREMONA - Un confronto serrato di cinque ore tra chirurghi di fama — i periti del pm e quelli della difesa — per capire se Mario Martinotti, natali a Pavia, 65 anni, dal 2007 e per 13 anni primario di Chirurgia Generale all’ospedale Maggiore, abbia «osato» con interventi così a rischio da cagionare la morte di quatto pazienti, come ritiene la Procura che lo accusa di omicidio colposo. O se, al contrario, abbia agito correttamente, come sostiene la difesa.

Oggi, al processo si è affrontato il caso di Pasquale Dornetti, 78 anni, agricoltore di Credera Rubbiano, malato di tumore al fegato, morto nel 2017. La vedova e il figlio sono parte civile, assistiti dall’avvocato Mario Palmieri.

DORNETTI ANDAVA OPERATO?

Dornetti andava operato? «No», per Andrea Verzelletti, medico legale all’Istituto di medicina legale degli Spedali Civili di Brescia. E per il professor Gianluigi Melotti, oggi libero professionista, prima della pensione primario a Modena.
La storia clinica di Dornetti. Nel settembre del 2016, a 77 anni, scopre di avere un tumore al fegato: una massa di 12 centimetri in una brutta posizione. È al centro del fegato, organo tra i più irrorati. A settembre Dornetti «è inoperabile». Al Maggiore, Gabriele Rozzi, responsabile del reparto di Angiografia e Radiologia Interventistica opta, correttamente, per la chemioembolizzazione: si inietta la chemio direttamente nell’arteria epatica. La terapia dà risultati: la massa si riduce ad 8 centimetri. A febbraio del 2017, Dornetti chiede un parere al primario dell’Unità operativa Chirurgia epato-biliare del San Raffele di Milano, centro d’eccellenza internazionale.

Dopo un consulto «multidisciplinare», il responso: «Meglio non operare, troppo rischioso». Il rischio, dice e insiste Melotti, è che «la massa era vicino ai dotti biliari».

Dornetti sente il parere del primario Martinotti che, invece, lo opera il 30 giugno. Il decorso post operatorio procede bene, poi si complica «per la presenza di fuoriuscita di bile, indicativa di una lesione delle vie biliari. Il referto parla di peritonite acuta diffusa, molto probabilmente causata da una sovrinfezione. La perdita biliare è legata alle lesioni delle vie biliari con alta probabilità prodotte durante l’intervento di asportazione della massa tumorale. È una delle complicanze più temute. Purtroppo, si è verificato il rischio ipotizzato al San Raffaele». Il 10 luglio Dornetti viene riportato in sala operatoria: l’intervento è urgente.

Viene drenato, si riprende, ma il 14 luglio, all’improvviso —nel giro di cinque minuti — muore per arresto cardiovascolare. «Se non ci fossero stati i due interventi, molto probabilmente Dornetti non sarebbe deceduto. Io, con questo parere pesante alle spalle del San Raffaele — sottolinea Melotti —, non avrei fatto l’intervento per la collocazione anatomica del tumore al centro del fegato dove convergono i vasi biliari. Il contatto è stretto. Se necessario, io avrei continuato con la chemioembolizzazione, se il volume della massa riprendeva si poteva ragionare». Melotti ipotizza che Dornetti abbia avuto «una sepsi».

Dornetti andava operato? «Sì» per il professor Paolo Soliani, chirurgo, dal settembre del 2020 referente organizzativo dell’Unità Operativa Chirurgie della Casa di cura Città di Parma, e per Nicola Cucurachi, medico legale a Parma. Sono i consulenti tecnici messi in campo dall’Asst, che nel processo è stata chiamata come responsabile civile.

L’avvocato Diego Munafò è il difensore. «Se noi non facciamo un tentativo di portarli in sala operatoria, questi sono malati che escono dal protocollo chirurgico e finiscono in quello palliativo». Soliani la chiama «chirurgia di salvataggio».

«Se il paziente non fosse stato operato, la sua prospettiva di vita era di 5-6 mesi. Vogliamo dire 9 mesi? Con l’intervento, la prospettiva di vita sarebbe stata di 5 anni». E le lesioni delle vie biliari? «Il San Raffaele è un centro a livello internazionale. Giustamente, ha indicato il vero rischio, che era quello vascolare. Il rischio non era sulla via biliare».

Soliani esclude che le lesioni delle vie biliari siano state causate dalla mano di Martinotti. «Si è creata una fistola successiva all’intervento. Durante l’intervento, il chirurgo l’avrebbe vista». E smentisce, con i dati, la sepsi ipotizzata da Melotti.

Dornetti andava operato? «Sì» per Marco Filauro: primario all’ospedale Galliera di Genova, è il consulente tecnico della difesa Martinotti (il professor Carlo Enrico Paliero e l’avvocato Fornari). «Il San Raffaele ha detto che l’intervento era troppo rischioso per le indicazioni vascolari. Non ha parlato di vie biliari. Il tumore comprimeva la zona, era sulla biforcazione biliare. Ciò può aver provocato un indebolimento delle pareti delle vie biliari non addebitabile all’operato del chirurgo».

Dopo il secondo intervento, Dornetti migliora, ma «ahimé, c’è la complicanza finale, inaspettata: la morte per arresto cardiovascolare che nulla c’entra con tutto questo».

Filauro spiega: «La chemioembolizzazione è una terapia palliativa che va verso la chirurgia di resezione radicale», l’asportazione della massa tumorale che nel caso di Dornetti si era ridotta». «La chirurgia di radicalizzazione della malattia è una chances vera per il malato».

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