L'ANALISI
27 Gennaio 2022 - 05:20
Euro Paulinich
CREMONA - A coglierlo di sorpresa è stata una malattia improvvisa quanto fulminea: a 78 anni si è spento nella sua casa di via Dante Euro Paulinich, conosciuto per essere stato l’ultimo esule istriano in città. Con lui se ne va un pezzetto di storia e un’anima poliedrica dalla spiccata vena scientifica, che sapeva però coniugare ad una profonda sensibilità artistica. Scrittura, pittura, incisioni, illustrazioni erano il suo pane quotidiano, insieme alle attività condotte in tante associazioni culturali cremonesi che lo hanno reso molto noto in città: dal Circolo artistico Leonardo (del quale è stato presidente dal 1994 al 2000) al Museo della Civiltà Contadina, dal Gruppo Mineralogico Cremonese ai Viaggi della Memoria organizzati per il progetto «Essere cittadini europei. Percorsi per una Memoria europea attiva».
Paulinich era così: amante del sapere in tutte le sue espressioni e della memoria storica. Ma per chi lo ha conosciuto più nel profondo, era rimasto quel figlio di una terra lontana eppure vicina, che seppure non aveva vissuto a pieno gli si era incollata addosso come un’impronta indelebile nel suo patrimonio genetico.
Nato a Fiume il 3 agosto 1943, nel momento peggiore del secondo conflitto bellico, a un anno vide la cattura e la deportazione a Dachau del papà Ottorino e dello zio Claudio, entrambi accusati di aver collaborato con i partigiani nel sabotaggio di un’industria di armamenti tedesca nella quale a forza erano stati costretti a lavorare. Per Euro fu quello il primo strappo. Il secondo due anni dopo, con la fuga verso l’Italia, abbandonando l’Istria perduta per sempre.
«Nostro padre si è sempre sentito un cremonese doc – raccontano oggi i figli Alexis e Igor – ma nel profondo ha mantenuto un legame atavico alla sua terra di nascita, continuando ad amarla e a coltivarne l’eredità seppure ne venne allontanato da piccolissimo. Era molto affezionato ad un’immagine di lui a anno: l’ultima scattata a Fiume, quindici giorni prima della cattura di nostro nonno. Una sorta di finestra temporale che lo teneva ancorato alla sua patria».
Per lui, salvaguardare la lingua, quel mix di idiomi dall’identità marcata, era come salvare sé stesso, la sua famiglia e un pezzo di storia dalla polvere del tempo. «Nella sua vita ha cercato di mantenere intatte le sue origini, conservando riti e tradizioni – continuano i figli che ogni estate, da bambini, trascorrevano le vacanze a Fiume —. Era un modo per affermare la sua particolare identità, pure sentendosi italianissimo».
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