L'ANALISI
06 Giugno 2023 - 05:25
Siamo tutti coinvolti nell’uso compulsivo dei telefonini nella nostra vita quotidiana. In effetti, svolgono ormai una quantità di funzioni. Già qualche tempo fa circolava nella rete un meme (cioè una immagine continuamente rilanciata tra gli utenti) che mostrava come il cellulare avesse fagocitato tutti gli oggetti che da sempre stavano sulla nostra scrivania: non solo l’ingombrante telefono col disco dei numeri, ma anche l’agenda, il calendario, l’orologio, il bloc notes, la penna, le buste per le lettere, la calcolatrice, i documenti nelle cartelline, il giornale quotidiano, lo stradario, la macchina fotografica nel cassetto, il registratore… E tendenzialmente sono finiti dentro il sottile profilo del cellulare, ridotti nella loro fisicità materiale, persino lo stereo, il televisore nella stanza e addirittura il computer stesso, almeno nella versione da tavolo! Il quale già aveva a sua volta dematerializzato e alleggerito tutti quegli oggetti, a partire dalla macchina da scrivere, con i suoi martelletti, le sue levette, i suoi nastri inchiostrati in rosso e nero, e i foglietti del bianchetto nella loro scatolina. Insomma, una progressiva sparizione di oggetti. Si può ben comprendere, sulla base di questi ripetuti congedi da un mondo che ci era familiare, come possa svilupparsi un generale tono catastrofico-apocalittico, nelle descrizioni dell’esperienza.
Come se non si potesse più sapere chi va e chi resta, in una sorta di continuo dilavamento del nostro stare nel mondo. Lo spazio esterno pare destinato a essere inghiottito all’interno di un dispositivo di calcolo logico. Se si sceglie di non farsi prendere dalla paura del gorgo, si apre la possibilità di capirci qualcosa, in questo processo di progressiva immissione di intelligenza nella materia. È un processo che dura da centinaia di migliaia di anni.
La prima tecnologia è venuta nell’età della pietra, dall’uso della mano come strumento per afferrare ed elaborare oggetti, innanzitutto, la pietra di selce scheggiata. Il linguaggio stesso è derivato da questa abilità tecnologica della mano: anch’esso è come una mano che afferra gli oggetti e li toglie dalla loro naturale presenza, elaborandola in una forma diversa. La forma-parola prende distanza dalla naturale presenza costante dell’ambiente intorno, permettendo di fare a meno della sua presenza fisica. Il linguaggio è già una sottrazione del peso fisico delle cose: quando dispongo della parola «leone», posso evocarlo in sua assenza, senza dover portare tra di noi un leone in carne e ossa, con la criniera, e quei denti, e tutto il resto.
Dopo la mano che insegna la sottrazione (insegna il «non», la non presenza, e quindi l’immaginazione), e dopo le parole del linguaggio, che sono come mani che afferrano e tolgono gli oggetti da sotto gli occhi, un secondo passo tecnologico decisivo è avvenuto con l’invenzione della scrittura, circa cinquemilacinquecento anni fa.
Si è passati, in essa, dai segni pittografici, che raffigurano gli oggetti, ai segni che raffigurano il suono delle parole che li indicano. Invece di rappresentare le cose, si rappresentano i suoni con i quali le indichiamo nel linguaggio. La raffigurazione del suono ha rappresentato per l’umanità un passo da gigante, che permetteva di usare pochi segni (le lettere dell’alfabeto) in diverse combinazioni, per scrivere e archiviare ogni idea. Invece di avere un segno per ogni oggetto, e quindi migliaia di segni per migliaia di oggetti, bastava disporre di una ventina di segni, e combinarli tra loro, per poter indicare qualunque cosa. Era ancora una sottrazione e un alleggerimento.
Nella storia della comunicazione, per più di cinquemila anni la scrittura alfabetica è stata l’unica tecnologia a disposizione. Poi, all’inizio dell’Ottocento, un’altra rivoluzione decisiva è venuta dall’industria tessile, cioè dal telaio Jacquard. Era un telaio che usava schede perforate per muovere in modo automatico i fili dell’ordito. La scheda perforata, tramite i suoi buchi, catturava le informazioni di qualsiasi figura da riprodurre nel tessuto. Con due soli simboli – il cartoncino bianco e il buco nero aperto in esso – si astraevano le informazioni. Si apriva così la strada per una ulteriore immissione di intelligenza nella materia, sempre più veloce: con l’elettricità, che conosce anch’essa due soli simboli: acceso/spento, passaggio di corrente/interruzione del circuito. Il linguaggio dei computer è appunto binario: O/1, e usa lo stesso principio del telaio Jacquard. Anche qui, la differenza tra il pieno e il vuoto – tra la presenza e l’assenza – è decisiva per comunicare lo stato del mondo.
Si può dire che noi attraverso i segni descriviamo gli oggetti non già in positivo, per come essi sono, ma per sottrazione rispetto alla loro piena uniformità, cioè rispetto all’uguaglianza con tutti gli altri oggetti. Li descriviamo attraverso la differenza che ciascuna cosa intrattiene rispetto a ogni altra: attraverso ciò che essi non sono. È stato un modo di pensare che ha dominato tutto il Novecento. La negazione, cioè la sottrazione della presenza, ha svolto il ruolo centrale nel compito di conoscere e raccontare il mondo. Ci si è persuasi che, quando si immette intelligenza nella materia, noi togliamo la sua immediata presenza fisica, lavorando per sottrazione, aprendo dei buchi in essa, e arrivando infine a togliere quegli oggetti dalla scrivania – a farli sparire all’interno di circuiti logici. Da un mondo di salde cose materiali, a un mondo di segni delle cose. Il baricentro si è spostato dalla centralità industriale del carbone e dell’acciaio, alla ovattata società dei flussi di informazione e di dati. Dobbiamo tener presente questa continua sottrazione di presenza fisica, quando comunichiamo la nostra esperienza.
Noi viviamo in un mondo fatto di oggetti fisici, inseriti in ambienti nei quali ci muoviamo in modo continuo (analogico) nelle nostre azioni, attraverso progetti e realizzazioni. Ma raccontiamo questo mondo continuo in digitale, cioè attraverso una sorta di schede perforate, che con pochi segni rendono in modo discontinuo i tratti della realtà. È un modo essenziale per riuscire a comunicare: keep it simple, punta alla semplificazione! Certo, in questo modo perdiamo molto degli infiniti dettagli della nostra esperienza. Per comunicarla senza esserle infedeli, dobbiamo bensì prender distanza da essa, ma senza perderla di vista. In questo allontanamento si apre lo spazio delle diverse interpretazioni dei fatti. L’epoca digitale, dei telefonini che fagocitano il mondo, ci sollecita a pensare un modo di comunicazione che non perda di vista la nostra esperienza concreta: incorporata, storica e piena di cose.
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