L'ANALISI
07 Agosto 2022 - 13:01
CREMONA - «Sono finiti i tempi in cui si pensava all’agricoltura come un settore in ineluttabile ritardo di sviluppo, e quindi da assistere. Adesso, più che nel passato, bisogna distinguere bene i giocatori sul campo. E se è vero che tutti sono necessari nel perseguimento del risultato finale, è altrettanto vero che confondere i ruoli e sbagliare la distribuzione dei compiti – un conto è mettere la tovaglia, altra cosa preparare il cibo e portarlo in tavola – crea solamente danni”.
Diffusi a fine giugno e relativi all’annata agraria 2019/2020, i risultati dell’ultimo censimento generale dell’agricoltura realizzato dall’Istat offrono molti temi sui quali riflettere a Sandro Gambuzza, vicepresidente di Confagricoltura che nell’ambito della giunta nazionale gestisce la delega al lavoro.
“L’economia dell’agricoltura – sottolinea l’imprenditore ragusano – dipende dalle imprese; ed è su quelle che bisogna concentrarsi. Nel nostro come in ogni altro settore possono avere dimensioni differenti: essere grandi o anche molto piccole, ma non microscopiche né occasionali. Altrimenti sono un altra cosa».
I dati del censimento mostrano con chiarezza l’entità della questione. «Il 14,4% delle aziende censite (circa 170 mila) è costituito da orti familiari, e rappresenta lo 0,1% della superficie agricola utilizzata; altre 700 mila (il 60%) coltivano il 30% della Sau (4 milioni di ettari) e in ogni caso non risultano iscritte nei registri delle Camere di Commercio; mentre le restanti 290 mila (il 25,6%) si occupano del 70% della Sau, per un totale di 8 milioni e mezzo di ettari. Appare quindi evidente che su oltre un milione e centomila realtà censite, solo meno di 300 mila sono imprese vere».
“Per le altre – prosegue Gambuzza – è stata coniata la definizione di ‘aziende – non imprese. Certamente avranno ruoli importanti di tutela ambientale e paesaggistica, una altrettanto significativa funzione sociale, saranno un deposito di valore finanziario ed anche affettivo. Per questo meriteranno politiche e regole proprie, ben diverse però (va detto senza ambiguità) da quelle riservate alle imprese. Concentrare l’attenzione delle politiche strutturali, nell’ambito della strategia di sviluppo rurale, sulle imprese e sugli imprenditori con iniziative opportunamente selettive, realizza d’altra parte un obiettivo fondamentale anche per i titolari delle ‘aziende – non imprese’: quello di mantenere, e possibilmente incrementare, i valori fondiari. Infatti, se questi ieri dipendevano dai favori concessi all’agricoltura dalle politiche agricole di sostegno indifferenziato dei prezzi e dalle agevolazioni, in futuro dipenderanno sempre di più dalla valorizzazione agricola operata dagli imprenditori. Sarà principalmente dalla capacità complessiva dell’agricoltura italiana di guadagnare posizioni nello scenario competitivo che deriverà la valorizzazione del suo stesso capitale fondiario: tanto a beneficio degli imprenditori che dei proprietari di piccoli appezzamenti e dei titolari di ‘aziende – non imprese’, che in questo senso hanno un interesse del tutto coincidente».
«Attualmente, invece, quella tra ‘azienda’ e ‘impresa’ è un’ambiguità di fondo (e antica) che caratterizza l’agricoltura italiana, mina la sicurezza alimentare del Paese, compromette lo sviluppo del settore e condiziona il dibattito sulle strategie di politica agraria più appropriate. L’immagine stessa del settore primario nazionale risulta distorta, e le sue potenzialità di sviluppo male interpretate. Con la conseguenza che anche il disegno delle politiche agricole può risultare (anzi risulta) inadeguato rispetto alle effettive necessità. Il consistente sovradimensionamento numerico dei soggetti protagonisti dalle cui decisioni dipendono le performance economiche dell’agricoltura si riflette nel notevole sottodimensionamento delle unità produttive agricole, rappresentato sinteticamente dalle medie: l’azienda agricola media possiede 11 ettari di superficie agricola utilizzata e produce circa 15.000 euro all’anno di reddito lordo standard. Se le imprese agricole fossero effettivamente nelle condizioni rappresentate da questi valori medi, l’agricoltura italiana sarebbe condannata ad un ineluttabile declino, e nessuna politica potrebbe risolvere i suoi problemi. Dopo 60 anni di Pac e di politiche agrarie nazionali e regionali, saremmo ancora allo stesso punto. Per fortuna, come ho già illustrato, la situazione è differente».
Una situazione dalla quale emergono però due universi di agricoltura, insieme alla necessità di un approccio differenziato tra ‘aziende-imprese’ e ‘aziende-non imprese’. «La miriade di piccole ‘aziende – non imprese’ - ribadisce Gambuzza – ha caratteristiche accessorie e funzioni soprattutto ambientali, paesaggistiche e sociali. Il loro elevato peso numerico si associa ad una modesta quota della Sau, dell’occupazione professionale e della produzione di reddito. Svolgono una funzione integrativa e supplementare nel quadro delle decisioni familiari del conduttore; ma non è da loro che dipende il futuro economico dell’agricoltura italiana. Vanno assistite con un sistema di regole adeguato: valorizzando le loro funzioni sociali e ambientali, il loro ruolo nella conservazione delle tradizioni e nel mantenimento di un diffuso rapporto dei cittadini con l’agricoltura e la campagna. Ma salvo qualche eccezione non sono generalmente imprese: soprattutto se non si accorpano ad aziende di maggiori dimensioni economiche e non si aggregano in qualche forma cooperativa o societaria».
«In queste condizioni, ogni analisi e politica che le tratti come imprese sbaglia obiettivo: perché gli aiuti si traducono in rendite e – soprattutto – si disperdono tra innumerevoli beneficiari, senza produrre effetti significativi in termini di adeguamento strutturale e crescita della competitività. Al contrario, le politiche non specifiche per questo tipo di ‘aziende-non impresa’ possono addirittura ostacolare la ricomposizione fondiaria ed impedire la loro trasformazione in unità di produzione più adeguate. È illusorio ritenere, salvo eccezioni che comunque non fanno la regola, che chi abbia un reddito lordo standard annuo medio di 4/5 mila euro si comporti da imprenditore. All’opposto, é sulle reali imprese agricole che va concentrata la politica per lo sviluppo imprenditoriale delle campagne del Paese».
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