L'ANALISI
29 Novembre 2024 - 08:30
Andrea Cigni, sovrintendente del Ponchielli e regista
CREMONA - Finita la prova luci in sala, Andrea Cigni racconta Andrea Chénier, terzo titolo nella stagione d’opera che andrà in scena al Ponchielli stasera alle 20 e domenica alle 15,30. Di questa produzione, è proprio Cigni il regista.
Comincerei da una battutaccia. Si sente più Andrea Cigni o Andrea Chénier?
«Mi sento un po’ un Andrea Chénier, perché mi sento un rivoluzionario in senso buono. Una rivoluzione dolce quanto necessaria. È importante essere un po’ rivoluzionari e avere ideali che si cerca di trasmettere con la passione».
Ma quest’opera, allora, è scritta bene o male?
«Secondo me è un’opera bella, sotto certi aspetti. Un’opera che diventa popolare grazie alla sua musica bella, ruffiana, ricca, sentimentale, che racconta e crea tante emozioni. Ed è ruffiano anche il soggetto. Descrive minuziosamente nei nomi e nei luoghi la rivoluzione francese. A un certo punto entra in scena Robespierre, e dunque ogni regista è costretto a rappresentarlo. Quest’opera ha tutti gli ingredienti tipici del melodramma: l’amore, il contrasto tra baritono e tenore, la morte vinta dall’amore. Ci dà speranze, ci insegna che l’amore trionfa sulle convenzioni e le differenze sociali».
In un’opera così storicamente connotata come Chénier esistono margini di originalità per il regista?
«Esistono secondo la chiave di lettura che si vuole dare. Non tutti i registi accettano di allestire quest’opera. La scelta sta nel concentrarsi o sul contesto storico o sull’evoluzione psicologica dei personaggi. L’obiettivo è raccontare un amore che non ha tempo e non ha luogo. E poi ci sono tanti accorgimenti di mestiere. Una scelta tecnica è stata usare quello che in gergo chiamiamo sipario ‘a ghigliottina’ (cioè il sipario nero calato dall’alto, come a tagliare la scena, ndr). In questo Andrea Chénier non si vedono le solite ghigliottine in scena. La scena viene spostata verso di noi, e la fine tragica di Andrea e Maddalena è rappresentata da un sipario nero che cala dietro di loro, lasciandoci davanti agli occhi il trionfo dell’amore».
Ma tre quarti dell’opera sono comunque impregnati di storia e influenzati dall’iperdidascalismo di Illica.
«La storia c’è, nella musica e nei personaggi. Si deve raccontare tutto questo, ma sapendo togliere ciò che non è essenziale. C’è tanto di troppo in quest’opera: tantissimi figuranti non indispensabili, ad esempio. E non bisogna aggiungere ‘altro’, cioè cose che non c’entrano niente».
Chi viene a teatro oggi può ancora riconoscersi in questa storia?
«Le rivoluzioni non sono per tutti, ma fanno parte dell’essere umano. In due momenti il pubblico verrà coinvolto direttamente: l’atto d’accusa di Gérard e il duetto finale di Chénier e Maddalena».
Parliamo un po’ dei protagonisti di quest’opera.
«Il più interessante, come spesso accade, è il baritono, Carlo Gérard. Attraversa molti stadi: l’amore per Maddalena, l’indolenza nei confronti del suo essere servo, prima della nobiltà e poi della rivoluzione, la lacerazione amorosa, e poi la crudeltà, l’invidia nei confronti della libertà di Chénier. Perché Gérard si sente un po’ poeta. Infine, la compassione e il pentimento. Mi sono sempre chiesto: dopo la morte di Andrea e Maddalena, Gérard cosa farà? Una cosa che peraltro mi chiedo alla fine di ogni opera».
E Chénier?
«Il tipico eroe romantico funzionale all’opera, con la sua sfera valoriale: patria, amore e onore. Non vive una grande evoluzione, e per questo appassiona più che altro la parte musicale».
Infine Maddalena.
«Quell’introduzione con il violoncello prima dell’aria di Maddalena, La mamma morta, è un colpo di genio. Chi lo ascolta per la prima volta non può non commuoversi. Maddalena vive un’evoluzione meno complessa rispetto a Gérard, ma dalla leggerezza iniziale già alla fine del primo atto inizia a essere consapevole di come quel mondo — quello dell’Ancien Régime — stia crollando».
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