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IL COMMENTO AL VANGELO

Verso gli orizzonti che significano vita

Gesù utilizza elementi noti, come il pane e la memoria ebraica della manna del deserto, per andare oltre e per rendere ancor più radicale la lontananza con chi gli sta davanti e non comprende, contesta, si scandalizza

Don Paolo Arienti

18 Agosto 2024 - 05:05

Verso gli orizzonti che significano vita

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gv 6,51-58

Il discorso che Giovanni propone al capitolo 6 del suo Vangelo ci sta accompagnando da diverse domeniche. Ed oggi, attraverso un linguaggio sempre complesso e articolato, giunge forse al suo culmine. L’evangelista lo costruisce con la forza della dialettica tra Gesù e i suoi interlocutori, secondo due direttrici: quella dello scontro tra realismo e paradosso; e quella degli equivoci che confondono i piani e rendono quasi impossibile il confronto. Gesù utilizza elementi noti, come il pane e la memoria ebraica della manna del deserto, per andare oltre e per rendere ancor più radicale la lontananza con chi gli sta davanti e non comprende, contesta, si scandalizza.

Perché l’intero discorso sul pane è in realtà un potente invito ad abbandonare il buon senso delle cose che si vedono, compreso l’ordine abituale della pratica religiosa che nel suo tentativo di controllare, sistemare e governare rischia di spegnere quella sorpresa grata che è l’atmosfera della rivelazione di Dio.

Come può quest’uomo dire queste cose? Chi sarà mai? Come può dare la sua carne e arrogarsi il diritto di donare la vita eterna e la salvezza? Giovanni non perde occasione anche in questo brano di rilanciare la vera, fondamentale pretesa della fede cristiana: l’amore di Dio non è un mito né sarebbe il risultato di una conquista umana, di ragione o di volontà. Al contrario esso fa irruzione nella storia, ‘discende dal cielo’ e si rende disponibile, indicando che il legame profondo tra Gesù e il Padre è offerto a chiunque, non subisce alcuna riserva elitaria e non è sottoposto a tariffe insostenibili. E l’asprezza della polemica che le sue parole suscitano è come un avvertimento, un monito perché anche i lettori ipermoderni del Vangelo non rinuncino ad aprirsi all’inaspettato: è possibile che un amore che salva, scenda dal cielo, si doni incondizionatamente e non dipenda dalle ansie prestazionali dell’umano. Di più: è possibile che il sedere a mensa e fare comunione con questo amore valga la vita eterna.

Nessuno può sapere o immaginare come sarà nelle sue concrete determinazioni; siamo tutti esseri di terra e di cielo insieme, ma non ci figuriamo una vita spirituale… un Paradiso concreto ci sfugge. Eppure, la promessa evangelica, che non si sofferma mai su ricostruzioni fantasiose e su particolari irrealistici, ribadisce che questa vita eterna, questo stare con il Signore per sempre, è lo sbocco del Vangelo, il suo obiettivo, la sua più profonda essenza. In gioco c’è la verità efficace dell’amore: una comunione che si lascia anche mangiare, assimilare, perché non venga mai declassata a solo desiderio la cui realizzazione è troppo di là da venire. Gesù si fa mangiare, nella logica del sacramento, perché il segno rassicuri, interpelli, provochi.

A volte capita, ed è il destino di tutte le cose preziose che subiscono il logorio del tempo o la banalizzazione della routine, che questo mangiare sia troppo liofilizzato (un posto intimo, ma lontano dalla mensa… un pezzo di pane quasi invisibile… per non parlare del vino riservato solo ad alcuni…): il gesto diventa rarefatto, quasi muto, in parte paralizzato. Lo si riproduce tantissime (troppe?) volte ed è come se la ripetizione, al tempo stesso, consentisse l’accesso all’evento e ne indebolisse la forza. Questo è uno dei paradossi e dei limiti in cui versano le comunità cristiane oggi, mentre chi non frequenta guarda da lontano un gesto forse ancora affascinante, che però necessita di maggiore cura, di maggiore calma, di maggiore calore. Per tutti, praticanti o no, serve una decisione: buttarsi, uscire, lasciarsi interpellare.

Giovanni nel capitolo che stiamo leggendo in queste domeniche estive, va diretto al nucleo della questione e provoca su ciò che rende eterna la vita: solo, sembra dirci, la comunione con Dio e la capacità di cogliere il valore di aprirsi al cielo, senza chiudersi nell’orizzonte troppo geometrico e troppo angusto della terra. Forse tutti percepiscono il fascino di qualcosa o qualcuno che richiami ad un oltre, che ci ‘strappi’ dalla piccola tana in cui ci troviamo: un viaggio, un’amicizia, un desiderio che si traduce in progetto… sino ad orizzonti più profondi che chiamano la vita a pensarsi dentro qualcosa di straordinario, che, appunto, l’ordinario piccolo non sa vedere.

Gesù imposta il suo discorso proprio su questa dinamica: e dentro di essa vede la proposta dell’amore di Dio.

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