L'ANALISI
04 Agosto 2024 - 05:05
In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».
Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: ‘Diede loro da mangiare un pane dal cielo’». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Gv 6,24-35
Il capitolo sesto di Giovanni, dedicato alla metafora di Gesù pane, è un crescendo di implicazioni tra le più complesse dei Vangeli. Il contesto resta quello del confronto con i discepoli che seguono e interrogano, con le folle che cercano pane da mangiare, con gli equivoci che Gesù sembra abitare in modo scaltro perché i suoi interlocutori (anche dopo secoli) non si limitino ad una lettura superficiale di un fatto miracoloso. Giovanni costruisce così una progressiva intensificazione del discorso che culmina in una affermazione sconcertante: «Io sono il pane della vita».
Se oggi un qualsiasi personaggio della politica o dello spettacolo se ne uscisse con un’affermazione analoga, magari già più debole, sarebbe tacciato di narcisismo e, forse, accomunato alla massa di egocentrismi di cui i social si nutrono. Anche la cultura ebraica dell’epoca avrà di certo reagito in termini fortemente critici: ma come? Colui che ha dato il pane al popolo nel deserto non è forse Dio? E chi può arrogarsi il diritto di sedere accanto a lui, sino al punto di prenderne il posto?
Allora come oggi quelle parole suonano come fuori luogo, esagerate e troppo mitiche. Un’aggravante ancora più forte pesa ai nostri giorni: stiamo un po’ tutti imparando, spesso a nostre spese, che la forma dell’esistenza assomiglierebbe a quella di tanti atomi posti l’uno accanto all’altro; sarebbe la solitudine – l’altra faccia di una libertà solo rivendicata e di diritti solo strappati – a descrivere il cuore più autentico dell’esistenza. Giovanni propone al contrario una relazione che addirittura sfama, salva, riempie, utilizzando la logica essenziale del pane che in tantissime culture è il cibo indispensabile, il prodotto più semplice e più prezioso posto sulla tavola.
Ecco che con il linguaggio del paradosso e con una forzatura straordinaria Gesù introduce i suoi interlocutori al senso più profondo della sua proposta: ciò che appare in superficie come la rivendicazione di un potere o la riduzione in schiavitù, è in realtà l’offerta di una comunione profonda, capace di saziare l’umano e di consentirgli di riconoscere il proprio posto. Non è una magia che immunizza dalla vita; al contrario, è un nutrimento che consente di vivere l’esposizione che chiunque sperimenta proprio alla vita. Si mangia e ci si nutre appunto per questo: per disporre delle energie sufficienti a vivere in un mondo di sfide e di opportunità.
La comunione con Dio, l’allenamento a rompere il diaframma della solitudine e dell’autosufficienza sono i mattoni fondamentali della spiritualità, anche cristiana. Non basta il wellness né la sola cura della propria salute: occorre dare un nome e un senso a ciò che mangiamo. Ma nutrirsi di Cristo che cosa comporta? Quali nutrienti dona alla nostra vita e di quali energie saremmo privi se rifiutassimo quel pane? Queste domande sono cruciali per le comunità cristiane che non smettono di frequentare il pane eucaristico, celebrando il giorno del Signore; ma sono preziosissime anche per il cammino di chiunque voglia approfondire il senso di quella comunione. Essere ‘con Cristo’ o ‘in Cristo’ (come ripete spesso nelle sue lettere Paolo) non è questione di potere o di immunità, né di semplice consolazione religiosa. Quella relazione custodisce l’alleanza con Dio, la rende visibile e disponibile, è quell’‘amen’ che consente di ritrovarsi figli benedetti, mai singoli individui condannati a restare nella propria pelle. Quella relazione è il vero senso della parola ‘salvezza’, troppo spesso svuotata di significato o rinviata ad un paradiso ultraterreno. Si viene salvati innanzitutto dall’anoressia di una vita solitaria, dal vero male di vivere che è l’essere separati, isolati. Si diventa certo non ricchi, certo non invincibili, ma pellegrini che dispongono di una dotazione sufficiente per vivere nella gioia e sanno a chi danno fiducia: all’amore più grande.
I termini complessi del discorso sul pane vivo possono spaventare, ma sono un’occasione preziosa per riconsiderare il nostro rapporto con ciò che è pane davvero per noi, ciò che nutre sul serio la nostra esistenza, ciò che autorizza relazioni autentiche e non solo mercantili, occasionali, interessate. Il Vangelo è questa offerta di grazia che trasforma colui che mangia in un altro Cristo, un altro figlio, un altro costruttore del regno.
Mangiare quel pane, entrare nel giro di Gesù, nella sua passione per l’umano e per quanto richiede amore, è davvero potentissima medicina contro le anoressie della vita.
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