L'ANALISI
11 Agosto 2024 - 05:10
In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Gv 6,41-51
È proprio vero: le cose più profonde ed autentiche della vita assumono spesso la veste della piccolezza; quasi si nascondono alla vista, mentre gli occhi insaziabili dell’umano sono parametrati sul grande, sul potente e sul sensazionale. Non è affatto deprecabile l’obiezione che nella piccola sezione del capitolo sul pane viene fatta a Gesù: come è possibile? Come può un uomo in carne ed ossa paragonarsi alla manna del deserto, anzi pretendere di prenderne il posto? Come un po’ di pane può nutrire un’intera esistenza? Da alcune domeniche siamo provocati da brani evangelici convergenti: come se una continua insistenza, a tratti tagliente e disorientante, ci spingesse a semplificare, ad arrivare al cuore di tutto, senza distrazioni.
L’Antico Testamento, con le sue storie di prodigi straordinari, guerre e vendette, sembra inchinarsi davanti al cuore di certi profeti – oggi è il caso dell’affascinante Elia – che ricapitolano nella loro biografia il destino dell’umanità: la ricerca di una parola di giustizia, il valore di una benedizione più forte del male, un terreno da cui trarre alimento e su cui pronunciare un amen vero («sono stabile», «sono ben piantato»). Anche loro, voci antiche eppure così contemporanee, convergono sulla domanda cruciale. Anzi le loro scelte e vicende sono l’architettura narrativa che introduce anche noi nella medesima dinamica: può cambiare la geografia, l’epoca storica o il contesto economico, ma l’interiorità dell’uomo cerca sempre casa e non si accontenta – alla lunga – di palliativi superficiali, fossero anche cibi succulenti.
Ogni vita umana necessita di un pane essenziale, di una ragione al tempo stesso piccola e grande, come lo sguardo di chi ci ama o la parola di chi ci conferma nella vita. Per i credenti questo nucleo ha a che fare addirittura con Dio e il suo amore: è lui la parola che conferma e il cibo che non viene mai meno, nemmeno nelle pieghe più enigmatiche della vita. Ma occorre scavare, occorre semplificare, occorre riconoscere con animo semplice: non che il pensiero e la critica siano diabolici, ma l’umano è fatto anche di approdi e di casa; chiede di nutrirsi di fiducia e che certi muri vengano abbattuti e certe spigolosità vengano abbassate. Ha dell’incredibile l’amore di Dio! Ha dello sconsiderato non cedere al fascino del grande per prediligere il potere del piccolo! Sembra assurdo che nella scomposizione della vita, spesso paragonabile ad un campo di battaglia in cui ci si deve salvare come si può, si possa incontrare qualcuno che ci nutre e una parola che ha il sapore della vita.
Elia nella narrazione antica ha toccato con mano questa esperienza, l’ha trasformata in biografia: lui, fuggiasco perseguitato per la giustizia, lui desideroso di licenziarsi dallo scomodissimo incarico profetico, si ritrova accudito, qualcuno si prende cura di lui e lo rincuora, lo conforta. E così per lui la salvezza è divenuta un evento tangibile, un respiro autentico, un vero miracolo. Gesù nel capitolo sesto di Giovanni è come se augurasse a ciascuno un miracolo molto simile: un’esperienza di nutrimento essenziale da cui non allontanarsi; una ‘resa’ davanti alla fedeltà di Dio, molto prima dell’adesione a riti, formule o strutture religiose.
Senza dubbio Giovanni nel sistemare redazionalmente questo capitolo ha presente l’esperienza celebrativa dei primi cristiani: di come non potessero fare a meno di ritrovarsi in assemblea domenicale, magari in piccoli gruppi, per riascoltare, fare memoria, celebrare, stare dentro questa storia con la consapevolezza di ricevere in dono una ‘cittadinanza celeste’. E consegna anche a noi la necessità di un esercizio: sedersi a mensa non per abbuffarci, ma per condividere l’essenziale… uno ‘stare bene’ che non immunizza dal dolore e dal limite, non è un mero benessere psico-fisico, ma coincide con la coscienza di un posto, di una consistenza, di una comunione fedele.
La proposta evangelica assomiglia proprio a questo: che il ‘miracolo della resa’ capiti anche a noi; e che non assomigli ad un evento solo esteriore o solo emozionale, che non serva un grande palco con impianti stratosferici… ma che si possa interrogare la vita e scoprirla amata, benedetta e sigillata non da parole di morte. Forse il tempo estivo, con i suoi ritmi di maggior conciliazione con respiri sereni e relazioni non solo mercantili, può fare da scatola a questo miracolo: che va cercato e va accolto oltre la paura e la diffidenza.
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