L'ANALISI
07 Marzo 2024 - 14:45
CASALMAGGIORE - Alberto Boubakar Malanchino ha vinto il premio Ubu come miglior attore under 35 con lo spettacolo Sid. Fin qui tutto bene. Attore 31enne nato da papà italiano e mamma del Burkina Faso, ha raggiunto la popolarità con serie tv cult come Summertime e Doc - Nelle tue mani.
L’Ubu come attore under 35 è la conferma di una carriera più che avviata?
Sorride: «Non so se sia così, so che per me e per quanti hanno lavorato con me a Sid, Ivan Bert e Max Magaldi insieme al regista e drammaturgo Girolamo Lucania, ha significato portare alla ribalta non solo il sottoscritto, ma anche una realtà come CuboTeatro».
Sid è un monologo rappato, l’urlo di una generazione stritolata fra la noia e la pervasività dei social. Ma è soprattutto il racconto di Sid, algerino, figlio di seconda generazione. Viene spontaneo pensare ad un approccio autobiografico.
«In realtà la storia di Sid non è la mia. Il testo è nato da tutta una serie di storie e fonti che abbiamo trasformato e lavorato in sala, costruendo passo passo lo spettacolo con il regista e gli autori delle musiche. Sid è un ragazzo algerino, ma in realtà non è certa la sua origine. La mia storia è diversa, mio padre è italiano, mia madre del Burkina Faso. Il mio aspetto aiuta a visualizzare la storia di Sid, ma lavorando al monologo abbiamo voluto andare nella direzione opposta a quella della mimesi. Paradossalmente lavorando a Sid mi sono imposto di tenere fuori il mio ego, di lavorare su materiali altri e non cercare un’immedesimazione che non c’era e non c’è, se non per la condizione della nostra contemporaneità che condividiamo un po’ tutti e che il personaggio di questo lavoro urla».
Cosa intende dire?
«Siamo partiti dal particolare per approdare, almeno tentarci, all’universale. Ciò che vive Sid è la condizione di tanti ragazzi, non necessariamente nati da genitori stranieri. È la condizione contemporanea degli adolescenti annoiati eppure super sollecitati dalla rete, adolescenti che vivono sempre iperconnessi eppure denunciano e urlano la loro solitudine, il loro isolamento, la condizione in cui tutto rimane sospeso nella rete, tanto reale quanto inafferrabile».
Ed è quanto fa Sid?
«Lo fa Sid, ma ce lo dicono i ragazzi stessi. Chiedono di non essere lasciati a loro stessi, Sid. Fin qui tutto bene vuole essere un grido di allarme e forse una richiesta di aiuto. La solitudine e la noia caratterizzano la vita di molti. I ragazzi chiedono padri e madri che sappiano accompagnarli nell’età adulta, non per dire loro cosa fare, ma per sostenerli, affiancarli nel loro processo di crescita e invece, spesso e volentieri, sono lasciati a loro stessi».
Che pubblico viene a vedere il suo spettacolo e quali sono le reazioni?
«In sala c’è un pubblico eterogeneo, composto di adolescenti e di adulti, ma anche di persone non italiane, con la pelle come la mia. Me lo hanno fatto notare e questo non mi può che far piacere, perché se è vero, come andiamo dicendo, che il teatro è luogo di comunità, mi piace che possa includere tutte le comunità. E poi, alla fine dello spettacolo, è bellissimo incontrare il pubblico. Alcune ragazzine di 13 anni di un liceo classico mi hanno raccontato il loro senso di noia e la vergogna nel dire che amano leggere e la cultura, quasi fosse un motivo di demerito, almeno agli occhi del gruppo di coetanei. Credo che Sid stia raccogliendo un consenso orizzontale, la storia del mio personaggio è molto caratterizzata, molto localizzata e forse per questa sua alta percentuale di realtà sa diventare universale».
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