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IL COMMENTO AL VANGELO

Che bello! Restiamo qui!

Il volto più vero della storia, anche quella minuta di ciascuno di noi, reclama una qualità, appunto un senso. Così è stato anche per la vicenda dei tre discepoli che Gesù, senza troppi giri di parole, fa salire sul monte

Don Paolo Arienti

25 Febbraio 2024 - 05:05

Che bello! Restiamo qui!

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Mc 9,2-10

Ai più sembra che il mondo biblico sia troppo stravagante e troppo lontano dalla realtà che viviamo oggi. Un mondo incantato, dominato da forze oscure e magiche, animato da segni prodigiosi… mentre noi oggi abbiamo a che fare con la sola durezza delle brutte notizie e… un certo male di vivere che eleggiamo a magra consolazione o affrontiamo con qualche pillola. Leggere un brano in cui su di un monte Gesù si trasfigura (cambia forma nel testo originale di Marco), si illumina e ricorda certe pubblicità che dicevano “più bianco non si può”, fa molto strano. Ma, si sa, il mondo religioso è spesso collaterale a quello magico. Il filosofo canadese Charles Taylor nel 2014 usava due sostantivi pesantissimi: incanto e disincanto per segnalare il passaggio moderno dalla religione a qualcos’altro che siamo un po’ tutti noi: siamo diventati refrattari al fascino delle cose, della storia, della vita e un’inclinazione ambientale sembra spingerci a trasformare tutto in dati, numeri, connessioni e, fatalmente potere. Che puoi avere o, purtroppo, solo desiderare.

È proprio vero che i Vangeli provengono da un mondo completamente diverso dal nostro: un’epoca in cui anche agli storici di professione interessava forse di più narrare un senso che documentare fatti oggettivi, complice anche l’assenza di strumenti di precisione. Ai nostri occhi questo metodo suona sinistro, inaffidabile e dunque, forse, falso.

Ma, a ben guardare, custodisce un anelito che solo l’essere umano possiede e che fa della storia la nostra storia, dei fatti la nostra vita: la ricerca del senso, della direzione che abbiamo intrapreso o che qualcuno, in modo forzoso, ci costringe a seguire. Pensiamo per un momento ad oggi: dove stiamo andando, immersi in uno scenario sempre più militarizzato in cui occorre armarsi sin ai denti per affrontare imperialismi vecchi e nuovi?

Il volto più vero della storia, anche quella minuta di ciascuno di noi, reclama una qualità, appunto un senso. Così è stato anche per la vicenda dei tre discepoli che Gesù, senza troppi giri di parole, fa salire sul monte e fa partecipare ad un fenomeno che al tempo stesso li affascina e spaventa. Partecipano ad un’ esperienza di vertice, forse ad un miracolo, forse ad un prodigio. Ma a Marco, il saggio e asciutto narratore di questa pagina, interessa di più quel che verrà dopo: la discesa dal monte, il loro restare soli con Gesù, tornato carne e sangue, fragilità che cammina, parola che desidera condividere la verità. Il cambiamento di forma di Gesù sul monte è preludio ad un altro cambiamento: quello dei discepoli che dovranno fare i conti con le parole e i gesti di uno come loro, capace però di affascinarli con la potenza della verità. E cuore di questa verità non è una lezione teorica né la spiegazione di un arcano teorema: è piuttosto lo scandalo del dare la vita. Appunto il senso, la direzione che Gesù darà al suo esistere. Che poi tutto questo sia la rivelazione più piena di Dio, del suo essere amore gratuito e non sostanza giudicante, è precisamente il cuore di ogni Vangelo.

I discepoli scendono dal monte ancora pieni di dubbi, perché il vero banco di prova non sarà assistere ad un miracolo luminescente, quanto piuttosto specchiarsi nel destino di Cristo: fare dell’impotenza e della consegna di sé la verità di Dio, la verità dell’onnipotenza. Ce ne metteranno di tempo! Anzi, non saranno mai persuasi sino in fondo, e dinanzi al realizzarsi di quella profezia scapperanno per salvarsi la pelle. Si sa mai che anche a noi capiti la stessa sorte! Poi però capiranno che non c’è altro senso pieno in una vita che nasce e muore, che sperimenta l’ingiustizia e la precarietà, che farsi dono, divenire l’impronta di Dio. Capiranno che solo la solidarietà più piena fa risorgere dai morti; che solo il non trattenere e il non rubare generano vita nuova.

Ancora una volta le comunità cristiane, convocate da questo Vangelo nel tempo quaresimale, si confrontano con la stessa dinamica dei discepoli: il senso, la direzione della vita. Il religioso che è in ciascuno di noi vorrebbe vedere; ed è pronto ad esclamare: che bello; restiamo qui! Mentre Cristo riporta giù dal monte e restituisce il senso: bisogna consegnare se stessi, diventare seme. Allora quella gloria appena intravista per qualche istante, confermata dalle due tradizioni maggiori di Israele (la legge e i profeti, Mosè ed Elia), diventerà piena. Perché avrà il sapore del compimento.

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