L'ANALISI
11 Febbraio 2024 - 05:20
Ulteriori dettagli Guarigione del lebbroso (N. L. Stevns)
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Mc 1,40-45
I Vangeli possono rappresentare per molti dei mondi troppo antichi, espressioni di credenze del passato, oppure destare sospetto perché visti come l’interfaccia di ideologie religiose. Anche Marco potrebbe ricadere sotto questa accusa, con le sue storie di demoni che fuggono, miracoli incredibili e guarigioni portentose. Dal suo punto di osservazione moderno, anche il credente non può accontentarsi di vedere nei testi evangelici solo una Parola immutabile, sacra nella sua codificazione grammaticale. C’è molto di più, e tutto mescolato: la rivelazione di Dio, la cultura del tempo, il fascino per una persona di cui, a prescindere dalle idee, nessuno può mettere in dubbio l’onestà. E ci si potrebbe, legittimamente, fermare qui. Però il credente sa che in quegli scritti è proposta un’altra grammatica: quella dell’amore di Dio e, legata a questa a doppio filo, quella della condizione umana, sospesa tra successi e delusioni, segnata dalla contraddizione della precarietà e invitata ad affidarsi al cielo.
Questa doppia grammatica è la protagonista della prima parte del vangelo che oggi le comunità cristiane ascoltano: un incontro, una solidarietà, un reciproco riconoscimento. Espressi con il taglio tipico di Marco: verbi definiti per azioni nette, tempi precisi per sequenze che si susseguono nella costruzione di una densissima semplicità. Viene così narrato il desiderio più prezioso dell’umano, quello di vedere superate le contraddizioni della deformità e dell’esclusione che oggi chiamiamo con i molteplici appellativi della disgrazia, della guerra, del male incurabile e del sopruso e che, allora, era riassunta nel potere devastante della lebbra. Colpisce che stavolta non sia Gesù ad andare e guarire, ma sia il povero lebbroso a rivolgersi al maestro, nemmeno con un atto di implorazione, ma affidandosi ad una libertà sovrana che intuisce non cattiva e capricciosa. “Se vuoi”, appunto.
Con il gesto del tocco, Marco ricorda che Dio vuole tante cose: vuole stare accanto, vuole superare un cordone sanitario che condanna alla solitudine, vuole futuro soprattutto per chi è consapevole di non averne. Una narrazione paradossale, che cozza contro le obiezioni razionali che ci inchiodano alle statistiche: pochi vengono guariti; la storia anche recente gronda sangue innocente da ogni parte; troppo spesso si incontra il “male di vivere”. Dentro questa narrazione ci viene in realtà offerto il perimetro della fede: consapevolezza di avere bisogno, libertà di chiedere, fiducia in un oltre con cui poter entrare in comunione.
Forse questo ci affascina, ci mette alla prova, oppure ci rende sospettosi… e dentro di noi lottiamo, ricordandoci che da secoli uomini e donne di ogni estrazione hanno abbandonato la fede perché ritenuta gesto e pensiero irrazionali. Meglio – si conclude - restare nudi e soli, accettare la vita com’è, sopravvivere a certe idee illusorie: un realismo crudo che apparteneva a persone del calibro di Nietzsche e di Feuerbach e che l’umanità contemporanea indossa senza troppe riserve, se non quella della rimozione del dolore (che poi è bene sia sempre il dolore dell’altro). Ce lo conferma anche Byung-Chul Han, brillante pensatore di Singapore, nel suo bel testo La società senza dolore, uscito per Einaudi nel 2022. Siamo – dice lui – allenatissimi alla rimozione, perché il modello generale è quello della perfetta autonomia e signoria dell’uomo. Che, tutti ricordiamo, non deve chiedere mai.
Il personaggio senza nome che provoca Gesù è l’opposto: sa di dover stare alla larga dalla comunità, sa di essere condannato alla morte in solitaria, sa di non contare nulla. E forse sa di interpretare una delle radici più profonde dell’umano. Nasciamo nel pianto, ci mettiamo tutta la vita a rimuovere quanto ci ricorda la precarietà, eppure è il senso del limite, anche l’odiato bisogno, a definirci, a ridarci la vera proporzione di quel che siamo. Come sarebbe la mia vita, se mi riconciliassi almeno un poco con questi bisogni? Come sarebbe quella di chi ha potere, di chi sposta i destini dei popoli?
Vengono in mente gli “inaspettati doni” di cui ha parlato Giovanni Allevi dal palco di Sanremo, raccontando della sua malattia cronica: chi ha bisogno impara la dura legge della gratitudine, assume uno sguardo riconoscente, coglie la bellezza delle piccole cose. Mentre per il mondo è solo un mendicante, uno sconfitto, un… lebbroso appunto. Nel racconto di Marco Dio è anche lì, dentro il tocco dedicato a chi non ce la fa più. Estremo paradosso della fede; rivelazione durissima e liberante al tempo stesso. E, forse, illusione. Ma come negare che proprio questo Vangelo, scritto duemila anni fa, sia davvero espressione di una grammatica eterna? Quella dell’uomo vero; e, per chi cerca di compiere il passo della fede, del Dio vero.
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