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IL COMMENTO AL VANGELO

Quell'ombelico che ci collega al mondo

È una questione di sguardo, cuore e prospettive. È una questione di umanità. La stessa che ci ritroviamo davanti ogni volta che saliamo in cattedra, andiamo a votare, proponiamo un’idea, ci sentiamo scomodati da una richiesta, ci narriamo la vita in famiglia

Don Paolo Arienti

04 Febbraio 2024 - 05:10

Quell'ombelico che ci collega al mondo

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Mc 1,29-39

Capita credo a tutti di attraversare periodi di stanchezza, in cui tutto appare per lo più ripetitivo, diafano e, forse, inutile. Alcuni vivono vere e proprie depressioni, alimentate dall’incertezza generale e da quella fluidità che un certo libero pensiero, pur sacrosanto e necessario, ha generato come “prezzo da pagare”: nulla sembra essere degno di fede, non si pronuncia più un amen sulle cose e sulle persone.

Anzi, nei momenti di crisi si tende a non alzare lo sguardo, e l’ombelico diviene un potente simbolo di ripiegamento, laddove dovrebbe ricordare quel legame vitale che ha reso possibile per tutti il venire alla luce.

Nella pagina di vangelo che le comunità cristiane propongono per questa domenica il segno è proprio opposto. Marco descrive un’attività quasi frenetica di Gesù che si sposta, guarisce, prega, incontra, riparte per altri luoghi… insomma trasforma in linfa vitale la teoria della cura: la fa diventare il suo stesso sistema nervoso, la ragione della sua reattività. Come a dire: non c’è tempo per la depressione, anche se il campo della malattia e del demoniaco che divide e consuma, mortifica e schiaccia nell’ingiustizia, è amplissimo e appare come soffocante.

Quella di Marco è certamente una operazione letteraria, forse per certi versi ideologica (occorre infondo dimostrare al lettore che Gesù è forte e che la sua vita è una missione divina), ma vale la pena specchiarsi nel dinamismo dei tempi di Gesù perché ne riscopriamo la tremenda attualità. Fa specie riconoscere come gli anni terribili del covid siano divenuti un nuovo, moderno spartiacque storico: diciamo con potente freddezza “prima del covid”, “dopo il covid”… come se quell’evento, portatore di un così tremendo senso di impotenza e dolore per intere società evolute e ritenute sicure, costituisse una vera svolta. Abbiamo scommesso, nel pieno dell’emergenza, che nulla sarebbe tornato come prima; addirittura, papa Francesco, che ricordiamo da solo in quella piazza S. Pietro deserta, più volte ci ha messo in guardia sul rischio di sprecare le esperienze, per una overdose di emozioni sostituite troppo in fretta da un’altrettanto potente overdose di nuove sicurezze, per lo più individuali ed economiche.

A ben pensarci, la posta in gioco è sempre la stessa: accorgersi dell’ombelico che ci collega al mondo o farne l’alibi perché ci si rinchiuda nella comfort zone dei nostri spazi. Lo sanno bene quanti, genitori ed insegnanti in testa, non si arrendono nella trasmissione del “saper vivere” che presuppone una passione paziente ed uno sguardo lungo, certo più lungo della consumazione economica delle cose e delle emozioni. Lo sanno bene coloro che esercitano, in forme diverse e spesso ignorate dai più, mestieri di cura, e nemmeno per il miraggio di uno stipendio da favola (si sa che i soldi sono sempre “per altro”, ben allocati laddove il luccichio del magico e dell’anestetico lascia tutti tranquilli, al massimo sfiorati dall’invidia).

Gesù è uno di questi uomini della cura e cade bene la celebrazione nazionale della giornata per la vita. Gesù sta in mezzo, crea legami, va a visitare, non si ritira quando gli portano gente o avverte che nessuna casa, nessuna cittadinanza onoraria lo possono vincolare per troppo tempo. Sa che la battaglia per la liberazione di chi è assoggettato al demoniaco è appena cominciata e ricomincia ogni giorno, ogni volta che gli esseri umani sperimentano, da una parte della barricata o nel suo opposto, il tremendo potere del dominio, nelle sue mille forme. Occorre andare.

È una questione di sguardo, cuore e prospettive. È una questione di umanità. La stessa che ci ritroviamo davanti ogni volta che saliamo in cattedra, andiamo a votare, proponiamo un’idea, ci sentiamo scomodati da una richiesta, ci narriamo la vita in famiglia.

Se questa pagina di Vangelo può essere ancora, appunto, vangelo, ovvero una notizia buona oggi, forse lo sarà nella sua volontà di trasmettere disturbo, innescare movimento, rilanciare la necessità di farsi cura, perché ce n’è bisogno, e tanto. Davanti alla coscienza che il Vangelo suscita, non vale obiettare: come faccio? Sono solo… e allora? Che ci guadagno? Vale invece accorgersi dell’immenso tesoro che le relazioni dischiudono: un sorriso, un consiglio, una parola, a volte un silenzio mantenuto nella prossimità di una sofferenza enigmatica. C’è proprio bisogno, come ha fatto Gesù, che si vada altrove, nei villaggi a predicare e scacciare i demoni. E che ad andarci non sia il funzionario pubblico, il burocrate o il sacerdote di turno, ma sia l’umano che è in noi. Senza che si possa dire: sì, ma lui era Gesù…

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